PERMACRISIS

Dicesi stato di crisi permamente, senza tregua.

Pare che sia la parola più rappresentativa di quest’altro anno horribilis, in quanto la più utilizzata in inghilterra secondo gli estensori del Collins Corpus, il data base che accorpa tutte le parole in uso (social media compresi) nel Regno Unito.

Dopo la pandemia, ci si aspettava perlomeno di rifiatare, ed invece ecco qua una bella guerra di invasione alle porte di casa nostra, che non ci fa dormire notti tranquille e ci rimette scomodi e insicuri.

No, non ci possiamo permettere di stare tranquilli, preoccupati dobbiamo stare!

Faccio un tipo di psicoterapia per cui l’attenzione al contesto in cui ha vissuto e vive la persona che mi chiede aiuto è alta. Questo perchè l’esperienza mi ha insegnato che le persone non “impazziscono” a caso, c’è sempre un contesto disfunzionale, un trauma non elaborato, una o più cause che, anche a distanza di tempo, hanno contribuito a mettere quella persona lì in una situazione scomoda, via via più non gestibile, fino a che generalmente, si presenta per chiedere di essere liberata dall’attacco di un sintomo.

Può essere lo spaventoso attacco di panico, può essere la fredda morsa depressiva, anche il noioso ruminamento ossessivo, può essere l’incapacità di gestire le relazioni. Insomma questi sono alcuni dei motivi prevalenti per cui le persone mi chiedono aiuto. Mi chiedono: liberami da questo mostro che mi porto dentro. Come se non riconoscessero la genesi del disagio dentro di sé. Non ricordano, non attribuiscono un senso causale agli accadimenti della vita.

Per chi conosce e studia il trauma, tutto ciò è conosciuto. Ed esistono tecniche e protocolli per poter intervenire, spesso in modo efficace.

La mia ricerca iniziale comprende l’ascolto della storia della persona, quindi chiedo se non capisco, interrompo per chiarire, dialogo per avere informazioni, non ho pelose cautele. Io voglio capire, umanamente capire cosa diavolo è successo a quella persona per farla stare così. E’ come leggere il romanzo della sua vita e mi appassiona. Lentamente (ma neanche tanto..) la matassa si dipana e la storia è lì, con le sue fratture, le sue mancanze, la sua cifra assolutamente umana. La vedo io e anche la persona che è li con me inizia a vedere, essendo stata condotta a ri-leggere la propria storia e a focalizzare la sua attenzione sui passaggi faticosi e doloranti che ha vissuto.

Ciò che noto, spesso, è proprio la mancanza di consapevolezza dell’impatto di alcuni eventi, che possono essere singoli fatti e/o anche contesti ambientali, sulla costruzione del proprio senso si sè. Non c’è contatto, non c’è legame.

E allora già il primo atto terapeutico è quello di restituire una versione più credibile, umanizzata, anche normalizzata, della storia della propria vita, seppur condensata, alle persona. E già quest’operazione ai più genera un rilassamento. Iniziano a sentirsi meno “strani” e più parte del genere umano, sperimentano sensazioni di speranza e fiducia.

Poi, certamente, il passo successivo non è poca cosa perchè contiene il passarci attraverso a questi nodi, con l’idea di districare la matassa, disincagliarla, ripercorrere i ricordi per scioglierli e dimenticarli. E’ faticoso, è disorientante, è angosciante anche. La notizia positiva è che abbiamo gli strumenti per farlo e funzionano.

Una delle scoperte più affascinanti che ho fatto nel corso della mia attività infatti è che è possibile lasciare andare le esperienze dolorose del passato nelle sue componenti fisiologiche e cioè le emozioni, risposte allo stress rimaste incastrate nel corpo dai tempi dell’evento, che, diversamente, continuano ad attivarsi ogni qualvolta un evento critico della vita le innesca.

La sfida è quindi quella di interrompere questo collegamento mortifero tra esperienze traumatiche del passato e le esperienze attuali. La sfida è quella di non accettare di vivere in uno stato di crisi permanente, ribellarsi per far vincere la vita e abituarsi a surfare sull’onda incerta della vita.

Se non ora quando?

Mi ritrovo davanti alla tastiera dopo tanto tempo e ciò significa che finalmente si è liberato dello spazio mentale perchè potessero nascere intuizioni, pensieri, collegamenti. Dico finalmente perchè con l’emergenza pandemica non c’è stato spazio libero per più di due anni. Lutti, angoscia, lavoro sul campo, formazione sull’emergenza.. E’ stato un pieno mai provato prima. La categoria degli psico- è stata presa d’assalto in questi due anni. Non c’è collega, giovane o maturo che sia, che non abbia visto impennare le richieste di aiuto e di presa in carico. Siamo stati in trincea e abbiamo trascinato fuori dal buco un bel po’ di persone in questo periodo di emergenza.

Ed ora, riemergendo dal pelo dell’acqua profonda in cui abbiamo annaspato in questo lungo periodo, si avverte una bella sensazione di freschezza e di vitalità ed arriva il tempo delle riflessioni e dei bilanci. Finalmente, a bocce quasi ferme…

Nella prima fase pandemica le persone che hanno chiesto aiuto, pur in crisi, erano in buona parte molto motivate a cambiare e ciò ha reso più agevole e anche più spedito il lavoro di terapia.

Quello che mi sembra di notare negli ultimi tempi è che le persone che ora stanno chiedendo aiuto siano invece ad un livello di sofferenza e stress nettamente più elevato e quindi il dispositivo terapeutico trova delle complessità per cui fatica ad entrare a regime per produrre risultati. In sintesi, è più difficile che il percorso parta, c’è un rischio alto di drop out, occorre forse anche più tempo in prospettiva perchè il tessuto profondo della persona è costellato di ferite e necessita di un lavoro delicato e paziente di medicazione e rammendo.

Ed ecco una prima riflessione: si parla tanto di adolescenti e giovani adulti in profonda crisi ed è certamente vero, ma si parla meno degli effetti della trasmissione transgenerazionale del trauma con conseguente disregolazione emotiva. Mi spiego: in tante situazioni il giovane che sta male è anche il risultato della mancata diagnosi e cura del genitore. Cioè il dolore, la disfunzionalità, il trauma del genitore passa al figlio. C’è evidenza scientifica di ciò: arriva pure a coglierne i segni a livello epigenetico.

Il problema che si prospetta in queste situazioni (frequenti) è semmai convincere il genitore o i genitori che questa è più un’opportunità che una tragedia o un’allucinazione del terapeuta.

Anche perchè spiegatemi come mai deve essere più accettabile che sia il figlio ad avere un problema, piuttosto che il sistema “famiglia”.

Un tempo si parlava di “famiglia schizofrenogena” cioè quella famiglia talmente disfunzionale che genera figli patologici ( un tempo si definiva “paziente designato” colui che manifestava in modo florido il disturbo).

E forse parte del problema sta qua: il pregiudizio che il giovane contemporaneo non ha, mentre il genitore se lo porta dietro come dato culturale appreso.

Mi spiego: le generazioni nate nel 900 avevano gran timore di poter avere un problema mentale (ora si dice psicologico) e quindi alla peggio prendevano il farmaco, raramente cercavano uno psicoterapeuta (nella seconda metà del secolo diventò più diffuso anche se spesso interpretato, come si faceva allora, come un vezzo borghese). Le generazioni nate nel nuovo millenio sono molto più concrete e meno influenzate da ideologie o dogmi e quindi “se sto male accetto di farmi curare”.

Infine, uno degli effetti della pandemia, e questa è la seconda riflessione che propongo in questo post di “ri-nascita”, è che ha sdoganato la psicoterapia. Cioè ora sta diventando ok andare dallo psicoterapeuta e molti si accorgono che è anche utile e fa star meglio.

P.S.

Questo post ha trovato il suo link di avvio dopo la visione del film America latina, con un grande Elio Germano, che tratta in modo crudo ma, ahimè realistico, questo tema.

Il sesso insegnato ai ragazzi

Come vivono il sesso gli adolescenti di oggi?
Come lo vivono gli adulti?
Quando un paziente porta il sesso in seduta me ne rallegro perchè sta portando energia, desiderio, piacere, sostanzialmente voglia di vivere. Sfortunatamente ciò accade di rado in modo spontaneo e, quando accade, noto spesso irrigidimento, timore e fatica, come se stessimo varcando i confini verso un territorio insidioso e pieno di ombre.
E per certi versi è così. Quando ci si espone nella propria nudità ad un altro, il timore di non piacere e di non essere adeguati è un fattore comprensibile.
Però se tanto mi da tanto, lo si fa perchè il corpo spinge in quella direzione e capita che anche il corpo dell’altro segnali inequivocabilmente che l’incontro dei corpi è molto.. ma molto desiderabile. E’ scritto nel dna, un fatto istintivo, una calamita inevitabile.
WOW!
E questo vale quali che siano i sessi in ballo in quel momento, con buona pace di chi confonde il sesso per procreare con il sesso per attrazione.
E allora, santo cielo, perchè il sesso è generalmente vissuto con tanta difficoltà?
Trovi chi confonde il piacere dell’incontro sessuale con una prestazione atletica da offrire, chi pensa di doversi conformare alle aspettative “youporn” del partner o anche persone confuse rispetto alle loro inclinazioni tanto da rinunciare o gettarsi spesso in situazioni border con la speranza di trovare attraverso quelle esperienze una propria definizione sessuale: omo, etero, bisex, nosex.. ma dai!
Ogni persona normodotata, debitamente bendata, che venga fatta oggetto di carezze e stimolazioni nelle zone erogene, si eccita. A prescindere da quale sia il sesso del complice del gioco. questo è testato! scientificamente testato.
Quindi siamo tutti potenzialmente bisex?
Forse si, forse no, dipende dal punto di vista. Certo, in molti inorridiranno al solo pensiero, tuttavia è solo il risultato di un interpretazione razionale, mediata dall’apprendimento culturale. Il corpo, che se ne frega del culturale, risponde, semplicemente reagisce come è programmato a fare. Non gli interessa un fico secco di essere bisex!
Allo stesso modo il corpo si accende a stretto contatto con un corpo di un genere piuttosto che di un altro o magari di entrambe. Non è un intenzione razionale: il corpo non mente!
E’ lontano il tempo in cui anche la buona vecchia psicoanalisi considerava l’omosessualità una perversione da curare. Anche qui, pur essendo per certi versi molto progressista, la comunità psicoanalitica era condizionata dal respiro culturale dell’epoca. Il buon Reich, allievo di Freud e ispiratore di Alexander Lowen, il fondatore della bioenergetica, ebbe l’intuizione che dall’osservazione del funzionamento del corpo si potessero trarre molti più spunti di quelli che la psicoanalisi tradizionale, in maniera un pò meccanica, ne aveva tratto. Non fece una bella fine, fu isolato e schernito e, alla fine, perse la bussola. Nel frattempo tantissimo è cambiato, portando anche ad un’evoluzione della tecnica di cura e ad un aggiornamento delle categorie psicopatologiche, per cui dal 1990 l’omosessualità è considerata dall’OMS una variante naturale del comportamento umano.
Ricapitolando, il corpo fa il suo dovere (sarebbe più corretto dire “il suo piacere”) in condizioni normali.
Dunque, cosa non funziona, cosa disturba, cosa mette ansia?
Assolto il corpo, il limite è tra l’emotivo e il cognitivo, è nella testa! E più precisamente in una visione antropologica e culturale antiquata e inibita sul sesso, nutrita dagli unici canali informativi che se ne sono occupati con dedizione: i siti porno!! I siti più cliccati al mondo, a quanto pare.
Ed il problema è proprio qui! Il vuoto educativo delle agenzie deputate a creare cultura, in primis la famiglia, poi lo stato (se non è una battaglia civile questa!) e in generale i media, oggi potentissimi.
Siamo in mano a youporn e i risultati si vedono. Se assistiamo ancora oggi ad innumerevoli episodi di violenza e di degrado che coinvolgono la sessualità, spesso con il femminile come vittima, è perchè il corpo e la sua natura sessuale non è ancora stato sdoganato nè considerato degno di un posto nobile nel campo formativo della persona.
Bisognerebbe insegnarlo ai ragazzi, descrivere la bellezza e la naturalezza del funzionamento del corpo sessuato, insegnare la sacralità del corpo, proprio ed altrui, il significato non solo sensoriale e impulsivo di gesti così intimi, ma anche e soprattutto comunicativo ed affettivo.
Il corpo come bene di consumo, da esibire, da abbellire, da vendere, fa parte della cultura ahimè attualmente vincente che favorisce una visione di potere, predatoria, egoista, in definitiva violenta e maschilista anche di un atto così semplicemente naturale.
Ciò che servirebbe come il pane sarebbe tentare di entrare in questo vuoto e provare a iniziare a definirlo, con parole magari malferme, ma gentili e delicate, sincere. Il mondo femminile potrebbe ora esprimere più determinazione e coraggio nel proporre la propria visione, il proprio desiderio, la propria conoscenza, in definitiva la propria natura nel dialogo col maschio, certamente perso e insicuro in questa fase storica.
Questo movimento è più facile che parta dalla famiglia, l’istituzione più libera di poterlo fare, per poi diffondersi e diventare cultura collettiva.
Può far bene ai giovani e può far scoprire molto anche agli adulti. Gli adolescenti di oggi sono molto più ricettivi e disponibili al dialogo di quanto lo possano essere stati i genitori alla loro età, per tanti motivi. Culturali certamente, ma anche relativi alla disponibilità infinita di informazioni che oggi gli adolescenti possono ottenere dal web. Solo che se lasciati soli in questo mare magnum, il rischio è che finiscano per rimanere vittime passive di modelli malati, a cui tendere per conformarsi e per sentirsi all’altezza.

Draghi e psicologia: ma che politica, che cultura!

E’ fuor di dubbio che l’infelice uscita di Draghi sull’inopportunità del vaccino alla psicologa di 35 anni gli sia sfuggita dai denti, figlia delle pressioni cui anche una persona della sua levatura, in un contesto emergenziale, subisce. E’ un essere umano e lo si può comprendere.

A me però, non appena l’ho letta, è salita una scossa elettrica nel petto che ha riattizzato una rabbia in realtà mai sopita, al limite tenuta a bada e ammansita. Sono ormai venticinque anni che faccio questo mestiere ed ho forse quasi imparato a farci i conti.

Rabbia perchè questa incauta uscita di una figura istituzionale su cui noi tutti riponiamo, come sempre, da popolo di grande cuore e immaginazione, grandi aspettative non ha fatto altro che riverberare un pregiudizio duro da cancellare e cioè che la psicologia e i suoi strumenti, siano aria fritta, un vezzo da viziati e (un tempo si diceva) borghesi, che si mettono sul lettino a farneticare. Non si conoscono perlopiù i grandissimi passi avanti fatti nella ricerca e nelle tecniche di cura.

Infatti la psicologia è la cenerentola delle discipline sanitarie (si Draghi, gli psicologi sono figure sanitarie, nel senso che svolgono un ruolo di prevenzione e cura della sanità mentale delle persone): non si investe in psicologia in Italia, si preferisce lasciare il mercato all’industria farmaceutica.

I servizi di psicologia in Italia hanno nomi, ancora oggi nel 2021, che richiamano lo stigma della follia, sono ancora per lo più sottomessi alla regia della psichiatria, la scienza che cura i matti, i malati cronici, tutte quelle persone che sono impazzite anche perchè non sono state accolte, diagnosticate e curate come persone, ma come casi, numeri, problemi. Io penso, in buona parte, perchè non sono stati capiti nel loro dolore profondo, nella loro frammentazione traumatica, nel dramma, irriducibilmente umano.

Non si investe in psicologia pubblica in Italia, i migliori lavorano nel privato ed infatti è lì che i più svegli li vanno a cercare, per tirarsi fuori dalla morsa del dramma personale. Ed è lì che si curano. Perchè gli strumenti esistono, sono validati scientificamente, e funzionano alla grande.

Provate ad andare a chiedere a tutte le persone che in quest’anno pandemico, si sono rivolte ai loro studi, perchè erano a brandelli psicologicamente. Andate e chiedete!

Io ho la testimonianza di operatori sanitari che, magari superando giustappunto un pregiudizio, dopo poche sedute con Emdr per esempio (strumento elettivo per la cura del trauma) sono rinate, letteralmente. Molti increduli, tutti stupiti. Andate, chiedete!

Non dormivano, erano visitate da immagini disturbanti, perdevano lucidità, erano facilmente irritabili, erano preoccupate di perdere il controllo, di impazzire.

Se l’alternativa era di andare a fare un consulto in psichiatria, nelle nostre psichiatrie, piuttosto si facevano prescrivere un ansiolitico da un amico e se la smazzavano da soli. Invece la pandemia ha consentito a molti di loro di chiedere aiuto, di informarsi su a chi chiederlo, di accedere alla cura e di uscirne, in poche sedute.

Chiedetelo a chi la malattia l’ha fatta ed ha visto la morte in faccia o a chi non ha neanche potuto salutare un proprio caro dopo che era salito sull’ambulanza, a chi era solo in casa mentre intorno la morte falciava vite. Andate e chiedete!

Anche queste persone, quelli che hanno avuto la forza di superare il gradino del pregiudizio, sono state aiutate, spesso grazie al lavoro gratuito e volontario di migliaia di psicologi in tutta Italia.

Chiedetelo agli adolescenti che genitori stravolti e disorientati ti consegnano perchè non ci capiscono più niente. Si parla tanto di anziani e così poco di questi giovani che già prima ci capivano poco, ora dopo un’anno di overdose da schermi, sono più persi di prima.

Anche con loro si è lavorato e si lavora per aiutarli a cogliere, oltre a questa coltre di pessimismo, di disinformazione e soprattutto, di mancanza di fiducia nel futuro, una motivazione a giocarla la partita della vita. Sono il nostro futuro e li stiamo facendo a brandelli.

Alla politica, signor Presidente del consiglio, si chiede di facilitare l’accesso alla cura del dolore psicologico, alla cura del trauma, alla presa in carico di persone e non di “disperati” ormai alla frutta, non stigmatizzando e svilendo la professione psicologica, come incautamente ha contribuito a fare lei.

Si chiedono servizi territoriali e ospedalieri per l’accoglienza di persone in crisi, che non siano subito diagnosticate per il “disturbo psichiatrico” che presentano, secondo il manuale DSM, ma accolte e prese in carico per il dramma personale che vivono, con la forza dell’umanità e la certezza degli strumenti che abbiamo e che, lo ribadisco, curano.

Alla politica si chiede un cambio di passo culturale, si chiede di allargare lo sguardo a Paesi avanzati come lo dovrebbe essere il nostro, che investono per la prevenzione e la cura del disagio psicologico punti percentuali del PIL, non briciole.

Non c’è traccia di psicologia e di risorse per essa in tutte le bozze dei piani di investimento per affrontare la pandemia; una delle proposte che è stata fatta recentemente dal mondo della psicologia è stata quella del voucher per le cura psicologiche.. non una risposta!

I soliti salamelecchi di corte quando è stato accolto qualche nostro rappresentante istituzionale, ma in realtà lo sguardo è sempre quello di chi non ci crede, di chi non comprende se non i numeri, le convenienze di bottega, il conservatorismo.

Come se non si capisse che accanto alla pandemia del virus è in atto una pandemia della sofferenza psicologica, che urla senza parole – perchè non le ha, non le trova – il proprio smarrimento. E’ attraverso l’accoglienza, il dialogo e la cura che le parole trovano la strada per uscire!

Allora signor Presidente, le bastano queste parole per provare a fare una riflessione nella direzione dello sdoganamento del pregiudizio sulla psicologia e i suoi strumenti?

L’anno che verrà

Giorgio e Maria stanno insieme da sei anni. Da tre convivono. Sono due persone realizzate, con bei lavori e alle soglie dei quarant’anni. Da qualche anno vorrebbero fare un figlio, ma questo loro sogno fa fatica a realizzarsi. Hanno tentato naturalmente per più di un anno senza risultati, poi si sono affidati alla procreazione medicalmente assistita. Finora hanno provato per ben sei volte senza esiti, se non un aborto spontaneo nell’ultimo tentativo, evento che ha gettato la coppia nella disperazione poi sfociata in crisi vera. A questo punto chiedono aiuto, perchè temono che la relazione si possa disfare.

Maria non si dà pace, si sente incapace ed impotente, dice di sè: “mi sento come una pianta secca..”

Giorgio è arrabbiato, cattivo, se la prende per ogni minima critica, sul lavoro non rende. Di sè riesce a dire, con gran fatica: “sono uno sfigato, un mezzo uomo..”

Questi stati d’animo così esasperati hanno a che fare con il vivere per un periodo prolungato una condizione persistente di stress.

Diciamo anche che riteniamo scontato, seppur spiacevole, nel corso della vita, affrontare eventi stressanti e che è l’aspettarsi che questi durino per un tempo limitato che li rende tollerabili. Tipici eventi possono essere un matrimonio, un trasloco, una separazione, una malattia.

E’ quando non c’è soluzione di continuità ad una situazione stressante che la gente, al giorno d’oggi, va ai matti: ed eccoci ai tempi del Covid, ad un anno dall’avvento della grande pandemia, con ancora di fronte un futuro incerto.

La pandemia ha rotto tutti i “setting”, cioè i sistemi di regole, abitudini, comportamenti più o meno consapevoli su cui ognuno di noi costruisce via via la propria esistenza. Sono quelle certezze che ti danno sicurezza, quei binari diritti su cui sei collocato, un po’ anche la cornice che delimita e contiene un quadro.

C’è il setting di lavoro, il setting di coppia, il setting della famiglia di provenienza, il setting delle relazioni amicali, il setting delle passioni e degli hobby, il setting del progetto di vita e via dicendo. Dentro ai setting, nelle relazioni interpersonali, sta il rifornimento affettivo che ci nutre.

Ecco, la condizione pandemica ha spaccato i setting e ognuno di noi si è trovato scaraventato nelle acque buie del mare in tempesta, cercando di raccattare in giro ciò che poteva di ciò che era contenuto dentro le varie cornici.

Tornando alla nostra coppia, provate a pensare che cosa possa aver significato per loro l’arrivo della pandemia: l’interruzione del progetto di fare un figlio per un periodo non determinabile mentre l’orologio biologico continua a macinare (reparto ospedaliero chiuso), la convivenza forzata (tutto il giorno ad incontrare l’altro, specchio della propria disperazione), le preoccupazioni di lavoro (smart working nel migliore dei casi, perdita dello stesso, rallentamento del progetto di carriera), la mancanza di contenimenti e nutrimenti affettivi (impossibilità di interazione con i cari, solitudine, ruminamenti, pensiero ossessivo), l’impossibilità di deviare l’attenzione su altro per regalarsi un pò di gratificazioni (no sport, no viaggi, no shopping).

Un disastro, una bomba ad orologeria. Stare insieme in queste condizioni è eroico.

La storia di Giorgio e Maria esemplifica la storia di tanti che già prima del Covid vivevano una vita al limite, sul filo del rasoio, già tanto sotto stress e che non cascavano perchè c’era giustappunto un setting, seppur precario, a sostenerle. Le persone, le coppie, le famiglie che già non stavano bene prima, col covid hanno rischiato e rischiano ancora di andare in crisi profonda. Ecco magari colgono l’occasione per prendere decisioni su cui prima avevano tanti timori, perchè sembravano troppo dirompenti, troppo definitive. Dopo il covid niente sembra più come prima e anche l’impossibile sembra .. possibile. Incredibile, ma è così!

Oppure realizzano che è arrivato il momento di un bel check-up psicologico, perchè tutti i veli ormai sono caduti e “il re è nudo!”. no more excuses, niente più scuse, è arrivato il momento di prendersi sul serio.

Veramente la pandemia ha presentato i conti a molti e ha proposto con molta crudezza ma anche con molta autenticità le domande scomode che, in tempi di normalità, non ci si voleva porre.

“la amo ancora?” “e cambiare vita?” “come mai mi viene l’angoscia a non poter uscire di casa?” “sai che c’è.. quasi quasi vado in pensione.” “perchè non ci sto dentro, se non mi faccio una canna?”

Certo, per tante situazioni che sotto stress, mostrano l’usura e le scomode verità nascoste, ce ne sono altrettante che invece dimostrano di reggere e danno conferma della genuinità delle scelte fatte e del valore di un legame costruito nel tempo. Ma queste situazioni in studio non arrivano, se non molto raramente.

Josip uno di noi

Ho iniziato a scrivere questo post al rientro dalle vacanze e poi ci sono tornato sopra non so quante volte. C’era qualcosa che mi impediva di trovare la lucidità e la giusta misura per far arrivare quello che volevo. Sarà che sono un tifoso, sarà che sono di Bergamo, sarà che sono un clinico che si applica anche sullo sport, non lo so con precisione ma così è andata.

Sulla vicenda del giocatore dell’Atalanta Ilicic ne ho lette tante, alcune veramente fuori luogo.

Non so cosa sia successo sul piano di realtà, quello che so è che mi dispiace e lo dico come persona, come tifoso e come clinico.

Naturale che spiaccia che una persona stia male, dispiace e irrita che non possa aver partecipato alla cavalcata finale di champions, il cui raggiungimento lo si deve anche alle sue magie, dispiace anche che ci sia tutta questa incertezza e pudore nel parlarne.

Provo ora a spogliarmi dalle vesti di tifoso e a spiegare cosa è accaduto da queste parti in primavera, perchè penso che c’entri con ciò che è successo a Ilicic, e che tipo di effetti può aver avuto:

La tragedia del Covid-19 in bergamasca ha letteralmente mandato in panne tantissime persone, molte delle quali non sono state toccate direttamente dalla malattia.

In questi mesi ho lavorato con operatori sanitari in prima linea nell’intervento, con chi la malattia l’ha avuta, con parenti di persone che hanno vissuto la malattia di congiunti, in alcuni casi perdendoli.

La mia opinione è che tutte queste persone hanno sviluppato una sindrome da stress post-traumatico, con  livelli di intensità sintomatologica diversi ma comunque importanti. Facendo un calcolo spannometrico rispetto ai dati che in questi mesi ci hanno accompagnato, credo che parliamo di una potenziale popolazione di persone in simili condizioni psicologiche di numerose migliaia di persone nella sola provincia bergamasca.

Mi è anche capitato di lavorare con persone che, pur non avendo vissuto situazioni come le precedenti, hanno iniziato a star male.

Attacchi di panico, insonnia, tono dell’umore ballerino, depressione, stanchezza fisica e mentale, abuso di sostanze: questi i sintomi più gettonati.

Lavorando con alcune di queste persone, si è osservato che gli effetti psicologi dell’impatto della pandemia e della clausura hanno riportato alla luce dei traumi precedenti.

Per chi si occupa di trauma psicologico è noto che l’impatto del trauma sulle persone, se non adeguatamente rintracciato ed elaborato, rimane sottotraccia fino a che non arriva un evento, anche non correlato con l’evento che ha vissuto originariamente la persona, che riattiva il trauma originario come se fosse ancora oggi presente, portandosi dietro tutta la sintomatologia originaria.

Solo che la persona spesso non riesce a fare il link tra lo stato d’animo di oggi e ciò che ha vissuto in passato: ciò che accade è che inizia a star male, si spaventa perchè oggettivamente non coglie un nesso tra l’esperienza che sta vivendo e quel qualcosa che è sepolto dentro di sè, va in panne.

L’esperienza di catastrofe provocata dall’epidemia che abbiamo vissuto a Bergamo ha funzionato come “attivatrice” di traumi pregressi per tante persone.

Per fortuna esistono tecniche, nello specifico io utilizzo l’Emdr, molto efficaci per la risoluzione del trauma. Parliamo di tecniche basate su una corposa evidenza scientifica e clinica, ormai utilizzate da più di trent’anni. La quasi totalità delle persone menzionate, grazie ad un adeguato lavoro di rielaborazione sul trauma, sono tornate alla normalità, anche abbastanza in fretta.

La pandemia ha traumatizzato tutti, non solo chi ha avuto a che fare con la malattia, anche se, come spero di avere descritto con sufficiente chiarezza, ci sono differenze significative tra chi è stato direttamente esposto e chi invece no. Non c’è da stupirsi che abbia colpito anche Josip, visto che è stato esposto come tutti noi a questo dramma tremendo e che si porta dietro un fardello personale di sofferenza.

E’ per questo che parlando di Josip, parliamo di noi in realtà, del dolore e delle ferite di tutta la comunità.

Il grande clamore suscitato da questa notizia evidenzia, dal mio punto di vista, che l’identificazione tra la gente di Bergamo e l’Atalanta esiste molto più concretamente di quanto si possa immaginare: il suo dolore è il nostro dolore e il nostro dolore è il suo. 

Ciò che è successo a Ilicic non è che una storia, purtroppo, tra le tante che questa terra ha patito.

Un brutto sogno

Una voce nella notte.. mia figlia mi chiama e poi accorre nel nostro letto. La abbraccio e la stringo a me. Non dormivo, non riuscivo a dormire, complice un peso sullo stomaco che mi portavo dietro da tutta la domenica e che aveva reso la giornata grigia e incomprensibilmente apatica. Pensavo alla cofanata di peperoni che mia moglie mi aveva amorevolmente dispensato a pranzo, ben sapendo quanto mi piacciono. Nonostante limone e zenzero, il peso continuava a rimanere lì bloccato nello stomaco.

Succede che, per qualche motivo  meraviglioso, il cervello, che per tutto il giorno si era rifiutato di fare il suo lavoro, inizia a lavorare in modalità “illuminazione” e partorisce una serie di associazioni che mi aiutano a mettere assieme il bandolo.

Mi viene in mente il pezzo che scrissi su questo blog il 1 marzo, anche lì sveglio nel cuore della notte. Lo shock dell’arrivo della pandemia e i primi tentativi adrenalici e stupefatti di dare una forma a ciò che ci stava travolgendo.  Successivamente, rassegnati all’isolamento, un po’ tutti ci siamo dati da fare per riempire: fai la pizza, fai ginnastica, gestisci i bimbi, monta la libreria, stacca il quadro, attacca una fotografia. E quanti whatsup scherzosi e irriverenti ci siamo scambiati con gli amici? Fa niente se la sera la moglie tornava dall’ospedale trasudando preoccupazione e ansia. “Le scarpe fuori sullo zerbino?” “Non ti sembra un po’ eccessivo?”

In realtà eravamo spaventati e cercavamo conforto: nulla è cambiato, andiamo avanti e domani al risveglio, tutto sarà passato!  Trucchetti consolatori. Invece eravamo tutti col respiro sospeso.

Eravamo come tanti bagnanti sulla spiaggia, ignari che pochi chilometri più in là l’onda mortale dello tsunami si stava gonfiando.

Poi la morte ha iniziato a calare la sua falce.

A metà marzo è arrivata l’onda e si è schiantata su di noi.

Ho perso subito un amico, uno shock per me e per i tanti che gli volevano bene.

Ricordo benissimo quella notte: c’era vento, un vento anomalo e impetuoso che faceva cigolare le tapparelle.

Fuori il caos, puro.

Decine di persone che non sentivo anche da una vita che mi cercavano, volevano assicurarsi che stessi bene. Numerosi ex pazienti nel panico, chiedevano aiuto. La metà dei pazienti che seguivo sparita, l’altra metà sul video.

E’ stato il momento in cui tutti noi ci siamo attaccati ai computer, ai telefonini, ai balconi, pur di trovare un momento di conforto.

E’ stato un trauma collettivo, almeno qui a Bergamo.

Quando il trauma arriva, ci si difende come si può. Nei casi estremi, come gli animali sopraffatti, ci si finge morti. L’uomo si difende infilando il dolore e il terrore in una stanza di cui chiude la porta a tre mandate, nella speranza di vederla scomparire per sempre.

E’ sano, è automatico, è umano. Tuttavia non è per sempre. Poi ritorna.

E ritorna quando la situazione lo consente, cioè quando si normalizza, quando si inizia a rilassarsi.

Ed è in quel momento che allunghi lo sguardo sulla spiaggia e percepisci, dai resti rimasti, la portata della tragedia.

In questi giorni di rilassamento, meritato rilassamento dopo un periodo così faticoso, inizio a percepire attorno a me lo smarrimento di tanti che iniziano a chiedere aiuto.

Chi ha subito un lutto o ha fatto la malattia o si è trovato in prima linea, inizia a prendere contatto con le emozioni vissute nei momenti tragici. In molti iniziano a stare male.

Raccontano che la notte si svegliano di soprassalto, provano una rabbia sorda, anche una tristezza infinita, cercano qualcuno con cui prendersela, il corpo che lancia segnali di fatica e di allarme, la mente poco lucida, immagini disturbanti irrompono.

Ma anche chi il covid 19 non ha toccato direttamente, ha subito il colpo.

Gli scheletri nell’armadio sono tornati a far rumore.

Situazioni latenti e cronicizzate di sofferenza emergono in maniera drammatica e rischiano di esplodere.

Questa tragedia, per la sua natura inconsueta, la sua lunga durata e anche per il fatto che è ancora attiva, si innesta, con la facilità di un coltello nel burro, nel trauma del singolo e lo riattiva.

Ogni persona che incontro mi dice che adesso saremo noi, gli psicologi, che avremo tanto da lavorare… Un mantra! 

Non credo che chi ci governa, a tutti i livelli, abbia compreso sinora la portata e gli effetti di questo trauma collettivo.

Non lo credo proprio se si guarda agli interventi sinora previsti dalla nostra politica: non una parola su ciò.

Si parla solo di soldi!

C’è un analfabetismo emotivo nel linguaggio politico da lasciar di stucco. Si preferisce affidarsi al dominio della tecnica come talismano rassicurante.. e abbiamo tutti visto e provato personalmente quanto fallace sia.

Cito solo un semplice esempio tra i tanti che potrei scegliere: secondo voi un qualsiasi operatore sanitario, dopo tre mesi di operatività folle e angosciata, tenuta a bada sinora con i denti e le unghie, preferisce 1000 euro in busta paga o 15 giorni di congedo straordinario premio, per chetare cuore, anima e corpo e stare con le persone amate a cui non ha potuto dedicare il tempo sinora?

Dal mio punto di vista tutto ciò è incredibile, un atto di rimozione colossale.

A voler essere maliziosi o più facilmente realisti, tutto ciò comunica un’incompetenza di umanità e di sintonia con i sentimenti dei tanti che ripetono come un mantra che ora saremo noi gli psicologi, a dover lavorare tanto.

In fin dei conti ragazzi, è stato solo un brutto sogno!

Psicologi volontari al tempo del covid 19

Il disastro provocato dalla pandemia viene conteggiato in termini quasi puramente numerici e finanziari. L’abbassamento del pil, il fatturato delle aziende, il numero dei decessi e dei nuovi contagi: una logica matematica insensata, che appare quanto mai sganciata dal vissuto di sgomento emotivo che si è diffuso nel paese dalla comparsa del virus.

Questa modalità mediatica utilizzata dalle istituzioni e dai media sembra drammaticamente indifferente alla sofferenza delle persone, quelle in carne e ossa, mica numeri.

C’è una gran voglia di dimenticare e di passare oltre, tornando sui fondamentali dell’epoca pre-covid.

Come psicologo, tra i tanti che in questo periodo si sono occupati, nel silenzio, di cercare di portare un poco di sollievo a quelle persone che hanno sofferto lutti o sono entrati in contatto con l’angoscia della morte per sè e per i propri cari, sento un disagio forte.

E anche una certa irritazione, ammetto.

L’associazione di cui faccio parte, Emdr Italia, ha costruito, nel giro di qualche settimana dallo scoppio dell’epidemia, una rete di quasi 200 gruppi di colleghi volontari in tutta Italia, coordinati e supervisionati da un team di esperti, con alle spalle una ventina d’anni di interventi in contesti di emergenza.

Parlo di un’associazione che ha nel suo dna proprio l’intervento sul trauma, quindi professionisti competenti nel contesto appropriato.

Sto parlando di competenze scarsissime sul territorio, sono pochi gli esperti di emergenza e sono ancora meno quelli esperti di emergenza in ambito psicologico.

Molti di noi lo sono diventati in questo contesto, lo hanno dovuto fare per poter essere utili e offrire attività a distanza per sostenere le persone in difficoltà. Parlo di migliaia di telefonate e colloqui on-line, questo solo in provincia di Bergamo.

Molte altre associazioni di psicoterapia hanno attivato iniziative simili.

Parliamo di migliaia di psicologi che hanno offerto, per puro spirito umanitario, le loro competenze alla comunità.

Leggo che, in questi giorni, anche il ministero della salute offre la possibilità di un numero verde che fornisce nominativi di migliaia di colleghi che offrono un supporto psicologico gratuitamente.

Ora vediamo perchè il disagio e l’irritazione.

La psicologia, nelle istituzioni, ha storicamente giocato il ruolo della cenerentola, schiacciata com’era tra la necessità di ritagliarsi uno spazio tra le ben più accreditate discipline mediche affini e il disagio di vivere un’identità mai ben definita, un’ibrido tra la matrice umanistica e quella scientifica.

Una delle conseguenze è stata che la presenza di psicologi nella sanità pubblica di un paese come il nostro, definiamolo di economia e cultura avanzata, è scarsa e spesso poco efficace, non fosse altro perchè deve coprire numeri di popolazione vastissimi, quindi può agire solo sull’acuzie e la cronicità.

Una delle conseguenze più evidenti è che, chi sta male e se lo può permettere, accede al privato, chi sta male e non se lo può permettere, o continua a star male, o (molti) si impasticca, o si mette in lista d’attesa in qualche servizio per poter fare 10-15 colloqui, se va bene.

Il paradosso di questa situazione grottesca è che le facoltà di psicologia sono piene.. e sfornano centinaia di laureati all’anno. Nonostante non ci sia lavoro, allo stato attuale, per loro! E’ una follia.

Possibile che il tema della salute mentale, della prevenzione, della cura non stigmatizzante del dolore psichico, non riesca mai ad entrare seriamente nell’agenda politica?

Possibile che parlare della costruzione di un progetto nazionale per la prevenzione e la cura del disagio psicologico sia considerato ancora secondario, al giorno d’oggi?

Possibile non sia possibile agire politicamente per sganciare l’intervento psicologico sulla crisi o sul disagio non acuto dalla schiavitù dai dipartimenti di psichiatria, i quali, non dimentichiamolo, con buona pace degli estimatori di Basaglia, sono ancora prevalentemente dei luoghi dove la contenzione è usuale.

Qualcuno vuole dare una risposta?

In attesa della quale, confidando che arriverà, vi invito a levarvi il cappello di fronte a tutti quegli psicologi che, molto discretamente, hanno aiutato e stanno aiutando tantissime persone a soppravvivere emotivamente al proprio dramma.

In definitiva è un vero atto politico, quello che la comunità degli psicologi sta facendo per la comunità allargata, se lo intendiamo nella sua accezione più nobile: la cura della polis!

Notizie positive: si sogna tantissimo!

Quando in terapia un paziente mi porta un sogno lo accolgo sempre come un dono: ci dà materiale importante per proseguire il nostro percorso di conoscenza. Oltretutto, con il tempo, credo di aver capito che, quando arrivano i sogni, la persona sta vivendo un periodo fecondo, di apertura e creatività.

In questi tempi bui capita che le persone stiano ricordando molto più spesso di aver sognato durante la notte. Non tutti ricordano il contenuto del sogno, alcuni ricordano solo delle sensazioni oppure si svegliano con uno stato d’animo nettamente diverso da quello del giorno precedente. Sono spesso sogni terribili, con devastazioni e morti, accompagnati dalla sensazione di emozioni molto intense. La mente rappresenta per immagini ciò che si sta vivendo quotidianamente. O anche si fanno sogni riparatori, salvifici. In qualche modo la mente cerca di bonificare le sensazioni di angoscia accumulate in questo periodo. Anche i bambini riportano incuriositi i propri sogni ai genitori.

Va detto che il nostro cervello è in grado di lavorare in maniera diversa tra il giorno e la notte e questo fenomeno è curioso. Di notte è come se lavorasse in modalità “fuori di testa”, rappresentando scenari inverosimili nella realtà, di giorno funziona al servizio del principio di realtà. Alcune persone si inquietano perché giustamente si pongono la domanda del come sia possibile che di notte funzionino in modalità “fuori di testa”. Questo è un bell’aggancio in psicoterapia per fare capire quanto la “normalità” dell’essere umano sia solo una pia illusione e una convenzione che consente di sentirsi tranquilli e in controllo. La nostra mente contiene al suo interno una buona dose di sana follia, che poi detta in modo più rassicurante, non è altro che il materiale della creatività e un segno della naturale evoluzione della nostra psiche. Il nostro cervello è programmato per tenere conto di tutto ciò che accade durante la veglia e, durante la notte, riorganizzarlo. Diciamo che di notte, benché non ce ne si accorga, avviene che tutte le informazioni non indispensabili vengano messe da parte, mentre quelle importanti, per così dire evidenziate: è il modo in cui il cervello sta apprendendo e, nello stesso tempo, si libera delle sue scorie. Questo processo ci consente quindi di sentirci in grado di affrontare ogni nuova giornata con una freschezza che la sera invece non percepiamo, perché generalmente ci sentiamo più affaticati dal punto di vista mentale.

In questo periodo poi, accumuliamo talmente tante informazioni emotivamente disturbanti per cui l’affaticamento mentale è molto più rilevante.

È un meccanismo meraviglioso se ci pensate, ed è ancora più stupefacente che, in un momento difficile come questo, le nostre risorse naturali si attivino maggiormente per venirci in soccorso.

Consigli per vivere l’auto-isolamento al meglio.

Ciò che sta accadendo nessuno di noi l’ha mai vissuto prima. Esistono linee guida di intervento in caso di emergenze eccezionali, come nel caso di terremoti, tsunami, grandi incidenti, a cui come comunità professionale di psicologi possiamo fare riferimento, però al momento attuale, vista la specificità della situazione, e’ tutto un work in progress. Vediamo insieme quali sono gli effetti psicologici e fisici del trovarsi calati in una stazione di questo tipo.

C’è stata una fase iniziale in cui non credevamo che la situazione fosse così grave e soprattutto che potesse arrivare ai livelli attuali, in cui bene o male tutti abbiamo cercato di mantenere le nostre abitudini e il nostro atteggiamento nei confronti del quotidiano. Quindi di fatto abbiamo un po’ allontanato l’idea e l’angoscia che le cose potessero precipitare.

Poi è arrivata la fase dell’impatto emotivo in seguito alle notizie di prima mano e ai primi provvedimenti che sono stati presi: chiusura scuole, amici e colleghi che iniziavano a stare a casa, prime avvisaglie dell’impatto della malattia su amici e parenti, i media e i social impazziti.

In questa fase si possono provare una vasta gamma di emozioni quali tristezza, colpa, rabbia, paura, confusione e ansia. Possono anche svilupparsi reazioni somatiche come disturbi fisici (mal di testa, disturbi gastro intestinali, insonnia, incubi ecc.), difficoltà a recuperare uno stato di calma.

I successivi provvedimenti restrittivi presi dalle autorità e l’incedere drammatico dei numeri, possono aver aumentato le reazioni sopra citate.

Poi, fortunatamente, visto che siamo naturalmente programmati per adattarci alle situazioni, arriva la fase del fronteggiamento.

Ed eccoci qua! Quali sono le risorse che possiamo mettere in campo?

Innanzitutto cerchiamo di fare un lavoro su noi stessi:

Accettiamo il fatto che le nostre reazioni emotive sono normali in una situazione così inaspettata e tragica e che ognuno ha un suo modo di reagire che va rispettato, anche se ci pare poco comprensibile dal nostro punto di vista.

Quindi prendiamola come un’occasione per ascoltarci e imparare a conoscere meglio noi e le persone con cui viviamo.

Strumento utile può essere fare esercizi di rilassamento, utilizzando per esempio le diverse tracce che si possono trovare facilmente su YouTube.

Poi, ricordiamoci che non siamo soli ma che stiamo condividendo questa esperienza con tutta la comunità, da quella più allargata a quella più vicina a noi. Utilizziamo la nostra rete sociale al meglio attraverso la tecnologia: piattaforme come Skype, zoom e WhatsApp video consentono di fare delle belle chiacchierate con amici e parenti come non si sarebbero mai fatte in tempi di normalità.

Tutti in questo momento siamo più vulnerabili e più disponibili ad ascoltare e a parlare delle emozioni che viviamo, quindi bando alle remore, e provate a pensare a delle persone che vi danno un senso di sicurezza, di familiarità e di positività e programmate colloqui.

Mantenere il più possibile una routine regolare: quindi cercare di dormire il giusto, alimentarsi normalmente, programmare la giornata mettendo dentro attività variate, cercare di riscoprire e praticare hobby lasciati nel cassetto, dedicare una quota di tempo all’allenamento fisico (anche in questo caso ci sono tanti tutorial su internet), ascoltare musica, pensare e progettare concretamente dei miglioramenti alla casa, all’arredamento, ai servizi, che si metteranno in atto quando la situazione tornerà alla normalità.

Limitare l’accesso alle fonti di informazione a una/due volte al giorno e tenersi lontani dai media/social che diffondono informazioni allarmistiche/complottistiche: aumentano solo l’ansia e il senso di disorientamento.

A presto e mola mia!