Un brutto sogno

Una voce nella notte.. mia figlia mi chiama e poi accorre nel nostro letto. La abbraccio e la stringo a me. Non dormivo, non riuscivo a dormire, complice un peso sullo stomaco che mi portavo dietro da tutta la domenica e che aveva reso la giornata grigia e incomprensibilmente apatica. Pensavo alla cofanata di peperoni che mia moglie mi aveva amorevolmente dispensato a pranzo, ben sapendo quanto mi piacciono. Nonostante limone e zenzero, il peso continuava a rimanere lì bloccato nello stomaco.

Succede che, per qualche motivo  meraviglioso, il cervello, che per tutto il giorno si era rifiutato di fare il suo lavoro, inizia a lavorare in modalità “illuminazione” e partorisce una serie di associazioni che mi aiutano a mettere assieme il bandolo.

Mi viene in mente il pezzo che scrissi su questo blog il 1 marzo, anche lì sveglio nel cuore della notte. Lo shock dell’arrivo della pandemia e i primi tentativi adrenalici e stupefatti di dare una forma a ciò che ci stava travolgendo.  Successivamente, rassegnati all’isolamento, un po’ tutti ci siamo dati da fare per riempire: fai la pizza, fai ginnastica, gestisci i bimbi, monta la libreria, stacca il quadro, attacca una fotografia. E quanti whatsup scherzosi e irriverenti ci siamo scambiati con gli amici? Fa niente se la sera la moglie tornava dall’ospedale trasudando preoccupazione e ansia. “Le scarpe fuori sullo zerbino?” “Non ti sembra un po’ eccessivo?”

In realtà eravamo spaventati e cercavamo conforto: nulla è cambiato, andiamo avanti e domani al risveglio, tutto sarà passato!  Trucchetti consolatori. Invece eravamo tutti col respiro sospeso.

Eravamo come tanti bagnanti sulla spiaggia, ignari che pochi chilometri più in là l’onda mortale dello tsunami si stava gonfiando.

Poi la morte ha iniziato a calare la sua falce.

A metà marzo è arrivata l’onda e si è schiantata su di noi.

Ho perso subito un amico, uno shock per me e per i tanti che gli volevano bene.

Ricordo benissimo quella notte: c’era vento, un vento anomalo e impetuoso che faceva cigolare le tapparelle.

Fuori il caos, puro.

Decine di persone che non sentivo anche da una vita che mi cercavano, volevano assicurarsi che stessi bene. Numerosi ex pazienti nel panico, chiedevano aiuto. La metà dei pazienti che seguivo sparita, l’altra metà sul video.

E’ stato il momento in cui tutti noi ci siamo attaccati ai computer, ai telefonini, ai balconi, pur di trovare un momento di conforto.

E’ stato un trauma collettivo, almeno qui a Bergamo.

Quando il trauma arriva, ci si difende come si può. Nei casi estremi, come gli animali sopraffatti, ci si finge morti. L’uomo si difende infilando il dolore e il terrore in una stanza di cui chiude la porta a tre mandate, nella speranza di vederla scomparire per sempre.

E’ sano, è automatico, è umano. Tuttavia non è per sempre. Poi ritorna.

E ritorna quando la situazione lo consente, cioè quando si normalizza, quando si inizia a rilassarsi.

Ed è in quel momento che allunghi lo sguardo sulla spiaggia e percepisci, dai resti rimasti, la portata della tragedia.

In questi giorni di rilassamento, meritato rilassamento dopo un periodo così faticoso, inizio a percepire attorno a me lo smarrimento di tanti che iniziano a chiedere aiuto.

Chi ha subito un lutto o ha fatto la malattia o si è trovato in prima linea, inizia a prendere contatto con le emozioni vissute nei momenti tragici. In molti iniziano a stare male.

Raccontano che la notte si svegliano di soprassalto, provano una rabbia sorda, anche una tristezza infinita, cercano qualcuno con cui prendersela, il corpo che lancia segnali di fatica e di allarme, la mente poco lucida, immagini disturbanti irrompono.

Ma anche chi il covid 19 non ha toccato direttamente, ha subito il colpo.

Gli scheletri nell’armadio sono tornati a far rumore.

Situazioni latenti e cronicizzate di sofferenza emergono in maniera drammatica e rischiano di esplodere.

Questa tragedia, per la sua natura inconsueta, la sua lunga durata e anche per il fatto che è ancora attiva, si innesta, con la facilità di un coltello nel burro, nel trauma del singolo e lo riattiva.

Ogni persona che incontro mi dice che adesso saremo noi, gli psicologi, che avremo tanto da lavorare… Un mantra! 

Non credo che chi ci governa, a tutti i livelli, abbia compreso sinora la portata e gli effetti di questo trauma collettivo.

Non lo credo proprio se si guarda agli interventi sinora previsti dalla nostra politica: non una parola su ciò.

Si parla solo di soldi!

C’è un analfabetismo emotivo nel linguaggio politico da lasciar di stucco. Si preferisce affidarsi al dominio della tecnica come talismano rassicurante.. e abbiamo tutti visto e provato personalmente quanto fallace sia.

Cito solo un semplice esempio tra i tanti che potrei scegliere: secondo voi un qualsiasi operatore sanitario, dopo tre mesi di operatività folle e angosciata, tenuta a bada sinora con i denti e le unghie, preferisce 1000 euro in busta paga o 15 giorni di congedo straordinario premio, per chetare cuore, anima e corpo e stare con le persone amate a cui non ha potuto dedicare il tempo sinora?

Dal mio punto di vista tutto ciò è incredibile, un atto di rimozione colossale.

A voler essere maliziosi o più facilmente realisti, tutto ciò comunica un’incompetenza di umanità e di sintonia con i sentimenti dei tanti che ripetono come un mantra che ora saremo noi gli psicologi, a dover lavorare tanto.

In fin dei conti ragazzi, è stato solo un brutto sogno!

Pubblicato da

Dottor Ghezzi Marco

Psicologo psicoterapeuta Studio a Bergamo. Maggiori informazioni curricolari sul sito www.marcoghezzi.org

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