Riconoscere ed accettare le emozioni da coronavirus!

È veramente difficile trovare una misura in questa nuova situazione che ci tocca vivere. Da che l’emergenza è partita, e parliamo di tre settimane fa, lo scenario è completamente cambiato. Mi ricordo l’ultimo post, molto lirico, e l’ho scritto solo 10 giorni fa. Belle parole che penso che valgano ancora… ma non bastano, non tranquillizzano. Nel frattempo sembra che sia arrivata l’apocalisse. Tutti chiusi in casa. Il panico si sta lentamente diffondendo. La paranoia imperversa. Però accidenti, la notizia buona è che il panico ha ragione di esistere e la paranoia anche. Mi spiego: il panico arriva quando non capisci cosa sta succedendo, non hai il controllo sulla situazione, le tue paure più nascoste si arrampicano dentro di te e arrivano alla coscienza e boom, fanno strike. Morirò, moriranno i miei cari … Accidenti è vero, è possibile, e’ qui vicino a me. Qualsiasi contatto può essere pericoloso. Attivi il programma pericolo! Assolutamente naturale è sempre stato così, tranquilli. Non stiamo impazzendo! Poi inizi a rivalutare quegli esagerati che giravano con le mascherine o che si tappavano in casa. Li consideravi esagerati fino ha 15 giorni fa. Ora fai come loro. Si impara, semplicemente si impara. La paranoia poi, non è altro che figlia della paura. Ha ragione di esistere, è questione di sopravvivenza. Quindi non ci sembra più così strano che le persone si tappino in casa, lo facciamo anche noi anche se ci costa, anzi per certi versi siamo grati alle persone che ci hanno segnalato la via quando ancora non avevamo capito. Quando usciamo, cerchiamo una traiettoria che ci impedisca di incrociare altre persone, indossiamo mascherine, nei negozi siamo inquieti. Quindi essere paranoici ora e’ anche abbastanza normale. Diciamola tutta: non sappiamo da che parte girarci, non abbiamo appigli. Ci tocca fermare tutto: il lavoro, i programmi per le vacanze, gli incontri con gli amici. 15 giorni fa sembrava fantascienza. Ora è realtà! Ma non siamo matti, reagiamo naturalmente. Ci difendiamo come possiamo. Tranquilli, ne verremo fuori. Sicuramente! Pagheremo un prezzo, ma forse ne verremo fuori più ricchi, cambieremo le priorità della nostra vita. Apprezzeremo di più lo stare con i nostri cari, godremo dei loro sorrisi con un’intensità che ci eravamo dimenticati, ruggini fatue e banali si riveleranno come tali, fare una passeggiata nella natura ci sembrerà un’esperienza memorabile. Ci cambierà eccome questa triste esperienza!

L’insegnamento del Coronavirus: tornare ai fondamentali!

Anche l’ordine ci ha mandato un vademecum contenente alcune linee guida su come affrontare l’emergenza. Consigli a dire il vero abbastanza scontati per chi come lo psicoterapeuta è abituato ad affrontare, nel suo lavoro, la crisi come normalità. D’altronde abbiamo assistito in questi giorni agli effetti del panico anche in chi ci dovrebbe governare: il disorientamento e lo shock ha colpito tutti. Intere folle hanno svuotato i supermercati, città deserte come a ferragosto, stadi vuoti o aperti a seconda del livello di panico che colpisce il responsabile di turno, il presidente della Regione che si presenta con la mascherina per rassicurare la popolazione. Mah: Neanche ci fosse la guerra nucleare! E ancora, chi di noi in quest’ultima settimana non ha contattato l’amico medico per farsi rassicurare, chi non ha setacciato internet alla ricerca di informazioni affidabili, chi non si è assicurato che l’amico lontano stesse bene? Fortuna che la maggioranza delle persone, dopo lo shock e il panico iniziale, torna gradatamente a pensare con più equilibrio.  Al di là di quanto gli esperti ci indicheranno d’ora in avanti per affrontare questa specifica emergenza, che cosa ci insegna questa esperienza? Che cosa possiamo farne? Ogni crisi, come si sa, nasconde un’opportunità. Io credo che questa emergenza abbia rivelato potentemente a tutti noi quanto sia malfermo il terreno di certezza e prevedibilità che credevamo di avere sotto i piedi. La nostra opulenta società coltiva con metodo persone ipocondriache, è schiava dell’ossessività, abitua mollemente all’egoismo e all’autoreferenzialita’ e, in definitiva, infiacchisce nella sua decadenza. E poi, quando si scopre fragile, vulnerabile, impaurita, va letteralmente nel panico. Ora, senza retorica, provate a pensare a quanto gliene possa fregare del coronavirus all’africano che sbarca sulle nostre coste.. Gli interessa solo di sopravvivere, arriva dall’Africa ragazzi, la dove si muore veramente di fame, mica come nei film! Però sono sicuro che quest’uomo ha una fame, una motivazione e un’umiltà che noi ci siamo dimenticati da tempo. 

È una questione di prospettive ovviamente. Però credo che questa sia una grande opportunità per cercare di cambiare la nostra.

Tanto per iniziare, come sarebbe realmente formativo per tutti i nostri bambini, ragazzi, giovani adulti poter utilizzare questa opportunità per riflettere insieme ai loro insegnanti, quando torneranno a scuola, e con i loro genitori a casa (grazie allo smart working per es.) sul senso della vita, la sua incertezza, la sua fragilità e come questo si riduca, in definitiva, a tornare ai fondamentali dell’umanità! Smetterla magari di considerare i nostri bambini come dei gioielli preziosissimi a cui non si può mai dire di no ne’ si può tirare un ceffone  se vanno oltre il limite che noi sappiamo esistere, perché siamo adulti. Certo poi glielo spieghi il motivo del ceffone! Accettare l’invecchiamento come parte ineluttabile di questa splendida esperienza che è la vita e magari piantarla di rattopparsi a botulino per sembrare più giovani. Come se l’erotismo dipendesse dalla pelle lucida. Ma quando mai? C’è tanto mistero nel vivere. Continuiamo a cercarlo, rimaniamo vivi, curiosi. Tanta parte del mio lavoro in studio è dedicata ormai alla ricerca dei fondamentali perduti del vivere: cosa sente il mio corpo? Perché mi incazzo? Cosa voglio?

Ecco, questo è quello che mi si è illuminato questa notte quando mi sono svegliato di soprassalto e non sono più riuscito a dormire fino a che non ho scritto questo pezzo. 

Off topic atalantino

Nevica su Bergamo. Qualcosa vorrà dire! I vecchi tifosi, i nuovi tifosi, la gente di Bergamo ha sul volto dipinta una gioia rara, incontenibile. La sbornia notturna non si è dissolta, non si vede l’ora di andare a prendere un caffè al bar per sfottere chi ti ha sfottuto per anni dicendoti che non era roba per te. Invece siamo in Champions, agli ottavi, alla faccia di tutti. Finalmente possiamo fare gli sboroni anche noi. E lasciatemelo dire, ce lo meritiamo! Questa è una vittoria che nasce da una cultura, da un gruppo, da una passione, dal lavoro. Come ha detto correttamente il condottiero di questa squadra, il Papu, questa è una vittoria che nasce dall’umiltà e dal lavoro, una vittoria che nasce dal basso. Siamo gente che è abituata a prendere colpi, soffrire e poi ripartire. Abituati ad imparare dalle sconfitte e a non perdere mai l’attitudine al sogno. E’ per giornate come queste che si è atalantini nell’anima. Ricordando le trasferte europee negli anni 90, la serie C, le delusioni anche recenti, ma mai lamentandosi più di tanto, sempre testa bassa al lavoro. Poi diciamola tutta, una proprietà italiana,legata al territorio, che nasce dalla passione e da un sano spirito imprenditoriale che si fa un baffo dei vari fondi anonimi che comprano le squadre come se fossero quadri da appendere alle pareti dei loro sontuosi uffici in qualche megagrattacielo. Se la testa è buona tutto il corpo funziona a dovere. E arrivano i progetti sostenibili, le valutazioni del merito (quello vero non quello cstruito con un algoritmo), le persone giuste e infine le prestazioni che contano. Orgoglio atalantino, orgoglio di una città che non si lamenta più di tanto, mai, ed è abituata a lavorare. Per soddisfazioni che possono arrivare poche volte, ma quando arrivano, fanno rumore.

La passione è un motore potentissimo e contagioso. Bergamo trascina la squadra e la squadra spinge la città. Tante società sportive e tante aziende non hanno capito che è dalla passione, dalla competenza (quella del curriculum), dal sogno e dal lavoro che si mettono le basi per un progetto vincente. Devono esserci tutte queste componenti e devono essere reali non “virtuali”.

Oggi godiamo, domani chissà, e va bene così!

Angoscia di morte (per questo non lo leggerà nessuno!)

Tra le esperienze più profonde e potentemente vitali che mi è capitato di vivere in terapia ci sono quelle condivise con persone alle prese con la morte.

Il nostro Irving D. Yalom, decano della professione e maestro di limpido talento, ha recentemente licenziato il suo ultimo libro: Psicoterapia esistenziale. Differentemente da quanto ci aveva abituati a leggere nelle precedenti opere, gustose narrazioni per lo più, questo saggio è stato scritto prevalentemente ad uso della comunità professionale.

In esso l’autore si è sforzato di analizzare e sistematizzare il suo punto di vista su ciò che accade nella stanza di terapia.

Yalom si concentra sull’angoscia, motore di tutte le nevrosi e lo fa con il suo abituale pragmatismo e con una semplicità e lucidità che lascia piacevolmente sorpresi se si considera che al momento l’illustre collega ha 88 anni.

Le angoscie di base nell’esistenza delle persone secondo lui sono quattro: della morte, della libertà, dell’isolamento e dell’assenza di senso.

Mi concentrerò sulla prima, perchè forse è quella più negata in assoluto, come se la società stessa, perlomeno quella occidentale, ne sia talmente inorridita da scappare ogniqualvolta ne senta la presenza.

Si è tentati di rifuggere il tema, in maniera istintiva, in ogni contesto in cui capita di incorrervi.

Yalom sostiene che ciò accade anche nella stanza di terapia. Egli osserva che nella letteratura di riferimento si parla poco o niente di morte e dell’angoscia che porta. Lo stesso Freud, dopo aver considerato l’istinto di morte come possibile motore delle angoscie di base, abbandonò lo spunto abbastanza in fretta.

Ora, non è sorprendente che un esperto terapeuta come Yalom, pienamente entrato per meriti anagrafici nell’età che è in prossimità di quel limite, ci abbia pensato e come sempre ne abbia tratto ispirazione per creare.

Ciò che è più sorprendente è realizzare che ha ragione. Il tema della morte è rimosso frequentemente anche nella stanza di terapia. E’ un tema scomodo, che fa venire i brividi, produce una sorta di reazione istintiva a fuggirlo per tornare sui temi più rassicuranti delle magagne della vita. In realtà, credo, anche il terapeuta è disorientato di fronte ad un tema così definitivo ed inesorabile. E’ stato illuminante leggerlo.

Oltretutto il tema della morte in psicoterapia pone anche questioni concrete da affrontare. E’ risaputo che frequentemente i terapeuti proseguono a lavorare fino a che la morte o una malattia invalidante non li coglie. Spesso mi sono chiesto se questa modalità sia etica, pensando alle responsabilità che un terapeuta si assume quando prende in carico un paziente. Oltretutto c’è anche il tema dell’aggiornamento del professionista: siamo così sicuri che il terapeuta, passata una certa età, continui ad essere motivato ad aggiornarsi o non piuttosto, come è anche naturale secondo me, si collochi verso una posizione più statica. O anche mi chiedo, se malauguratamente il terapeuta si dovesse ammalare di una malattia incurabile, come si dovrebbe comportare?

Il terapeuta muore, come tutti, ma i pazienti nel frattempo continuano a vivere. Che ne sarà di loro?

E’ difficile parlare di ciò, me ne rendo conto, ed è anche vero che non esistono, per quanto ne so, linee guida sul tema. Ognuno si regola come crede. Quasi mai mi è capitato di sentirne parlare nelle occasioni di incontro e dialogo con i colleghi. E’ un bella sfida, certamente.

Un altro spunto di riflessione interessante nel libro nasce dalla constatazione, supportata da diversi studi, che i bambini pensano tanto e spesso alla morte cercando, forse per la prima volta nella propria vita, di fare i conti con una forte esperienza emotiva (l’angoscia) che, almeno sino a una certa età, non sono in grado cognitivamente di decifrare, comprendere e soprattutto di contenere emotivamente. Il principio di realtà è molto al di là delle loro possibilità; mentalmente funzionano su un piano più semplice ed elementare.

E’ una delle prime angoscie con cui entrano in contatto. Per loro, se gli dici che il nonno è in paradiso, è vero. C’è il paradiso come luogo reale e non fantastico come pensiamo noi adulti. Facciamo bene a raccontargli queste versioni oppure potremmo cercare di sforzarci di essere più sinceri, magari addolcendo questa triste verità con un pizzico di fantasia e rassicurazione? Siamo così sicuri che essere così cauti con loro sia al servizio di una sana evoluzione emotiva e non piuttosto significhi evadere una responsabilità (quella dell’adulto che aiuta il bambino laddove lui non può arrivare) lasciandoli soli a immaginare soluzioni fantastiche comunque, alla prova dei fatti, sempre fallaci, per tentare di chetare l’angoscia.

Non dimentichiamo che l’angoscia rivela il suo potenziale più disturbante, finchè ne rimane sconosciuta l’origine. Man mano che la si connette al conosciuto, tende a perdere il suo potere perturbante.

Oltre a ciò, parlare di morte, sostiene Yalom, è parlare di vita, del ciclo naturale della vita. Perchè starsene così discosti e spaventati?

 

 

Emdr revolution!

Questo è il titolo di un libro che di solito consiglio ai pazienti a cui propongo di lavorare con emdr (acronimo inglese traducibile in desensibilizzazione e rielaborazione – del trauma – attraverso i movimenti oculari).

È un libro agile, per niente tecnico e di semplice lettura, scritto da una valente collega israeliana, a scopo divulgativo. Per certi versi è un po’ celebrativo, tuttavia efficace.

Mi è venuto in mente oggi durante una seduta emdr mentre notavo, per l’ennesima volta, gli effetti stupefacenti sulla persona che avevo di fronte.

Certe volte i pazienti ti portano storie talmente complicate che inizialmente pensi che non riuscirai ad arrivare da nessuna parte.

In quei momenti ti senti confuso, disorientato, impotente. Ti senti come ti fa sentire il paziente, ti senti come si sente lui (in questo caso era un lui..).

E stai con lui, cercando, nel frattempo, su questo equilibrio instabile di emozioni e di caos narrativi, di dividere il grano dalla pula, di saldare tra loro i pezzi del puzzle, di immaginare ipotesi e lasciarle lì a frollare, in attesa del tempo di usarle, semmai arriverà.

In questo caso, mi era abbastanza chiaro fin dall’inizio, una volta stabilita nell’arco di qualche incontro una buona alleanza empatica, che lavorare con emdr avrebbe potuto aiutarlo. E così abbiamo iniziato a lavorarci sopra e siamo arrivati ad oggi, quando, guardandolo mentre elaborava un trauma infantile, sentivo, pur non vedendolo, che stava accadendo una specie di miracolo. Stavo assistendo all’implosione del trauma, che, poco alla volta, si scioglieva, diventando un ricordo, seppur spiacevole, ma non più detonatore di minacce, paure, angosce.

In altre situazioni, le reazioni dei pazienti sono più evidenti: c’è un innesco del corpo molto più visibile. Si assiste generalmente a pianti liberatori, a momenti di angoscia e di ansia molto intensi, a manifestazioni fisiologiche non ben definite ma che danno l’idea che stia accadendo qualcosa di forte dentro. Attenzione.. poi tutto, magicamente, si ricompone. E’ un miracolo, veramente. Le volte successive, di solito le persone riferiscono, non senza un comprensibile stupore, una sensazione di liberazione e di sollievo e il trauma è diventato un ricordo, seppur spiacevole, ma non più disturbante. Sono passati attraverso ad un moto rivoluzionario che ha ristabilito la naturale priorità della vita sulla morte. Come una ferita che si rimargina, solo che le lacrime si sostituiscono al sangue, perchè la lacrima è il sangue dell’anima.

Da quanto appreso finora attraverso la letteratura scientifica, lavorando sul ricordo traumatico con la stimolazione bilaterale, il sistema cervello-corpo si attiva per ristabilire un equilibrio sostenibile e lo fa come se passasse una scossa vitale ed energica sui binari del treno dove è collocato il trauma, rimasto per tanto tempo depositato in un angolo della mente ben riparato e nascosto, facendolo ripartire nel circuito di trasporto complessivo come uno tra i molti altri.

Che gioia dentro di me mentre accompagnavo questo giovane uomo verso la risoluzione del trauma. E’ una gioia che non si può manifestare troppo apertamente, giacchè, essendo in ruolo, bisogna occuparsi di presidiare i vari passaggi del protocollo con scrupolo.

Sono ormai abituato ad assistere a questi cambiamenti repentini, a questi candeggi miracolosi, per cui non mi stupisco più, tuttavia l’emozione è tanta.

Dal mio osservatorio la percentuale di successo è molto alta: direi un 9 su 10 e anche nei casi di situazioni molto complesse, dove il disagio e il disordine è alto, si osserva un beneficio nel paziente.

Certo non è un modo di lavorare adatto a tutti gli psicoterapeuti: è come operare a cuore aperto. Bisogna avere sangue freddo mentre osservi il cuore palpitare davanti ai tuoi occhi. Ci vuole secondo me una forte fiducia e anche un pò di sano coraggio e forse anche esserci passati nelle trame della tragedia, poi soppravvivendo.

E’ per questo che parlare di “revolution” secondo me è sensato. Almeno per il mio modo di lavorare, è stato rivoluzionario!

fonti

Emdr revolution. Cambiare la propria vita un ricordo alla volta. Una guida per i pazienti. Tal Croitoru Mimesi editore 2015

Obbligo di consulenza psicologica in pma? – quand’è che ci fate un figlio? /3

E’ con rincrescimento che ho appreso la notizia che il servizio di psicologia e sessuologia del centro cantonale di fertilità dell’ospedale di Locarno non è più attivo da un anno. Pare che il nuovo responsabile del reparto abbia deciso che di questo servizio non ce n’era più bisogno.

Qualche anno addietro ero venuto a conoscenza che nel loro modello di intervento era previsto un servizio di consultazione psicologica per tutti gli utenti ed ero curioso di capirne di più.

Contattai quindi il dr. Giovanni Micioni, lo psicologo fondatore del servizio. Trovai una facilità di contatto e una disponibilità a cui non ero abituato. L’accoglienza poi fu cordiale: mi accorsi che si erano organizzati per il mio arrivo e fui presentato dal collega psicologo ai membri dell’equipe.

Ognuno di loro mi spiegò la propria parte e si rese disponibile a rispondere a tutte le mie domande. Si percepiva un clima di squadra rilassato ed efficiente.

Il dato più interessante è che tutti gli utenti venivano accolti con un colloquio condotto dallo psicologo il cui l’obiettivo era prevalentemente quello di tutelare le persone, dialogando con loro e informandole sui vari steps che li attendevano. Successivamente era previsto un accompagnamento in tutte le fasi del trattamento. Insomma non semplici pazienti ma persone esposte ad un disagio psicologico e quindi vulnerabili sul piano emotivo.

Tornai a casa con una bella sensazione, e con una gran voglia di provare a far partire un servizio simile anche in Italia. E’ triste ammetterlo ma non riuscii nell’impresa. Nei centri privati che contattai non ebbi la possibilità neanche di un colloquio. Non ebbe molta fortuna neanche il tentativo con l’istituzione pubblica.

E ciò stupisce in quanto le linee guida della legge 40 del 2015, emanate dal ministero della salute, contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, parlano chiaro: “Ogni centro di PMA dovrà prevedere la possibilità di consulenza alla coppia e la possibilità di un supporto psicologico per la donna e le coppie che ne abbiano necessità. L’attività di consulenza e di supporto psicologico deve essere resa accessibile, quindi, in tutte le fasi dell’approccio diagnostico terapeutico dell’infertilità e, eventualmente, anche dopo che il processo di trattamento è stato completato, a prescindere dall’esito delle tecniche applicate.”

Per quanto mi è noto questo non accade se non sporadicamente e in forma non strutturata.

Riguardo a ciò che è accaduto oltre confine, è un peccato, perchè un’esperienza pionieristica con un patrimonio di 35 anni di lavoro rischia di andare persa.

Se pensiamo a cosa era la ricerca nel campo della procreazione medicalmente assistita negli anni 90 (l’ icsi – iniezione di un singolo spermatozoo nel citoplasma della cellula uovo – fu inventata nel 1992 e ai tempi fu considerata dalla comunità scientifica un’azzardo) c’è da rimanere sorpresi che già allora fosse operativo da anni il servizio di psicologia nell’ospedale di Locarno.

Provate ad immaginare la quantità di dati e di esperienze accumulate da questo servizio in un periodo così lungo di tempo. Che spreco e che follia!

Tra le altre cose, a quanto risulta, il servizio funzionava bene: pare addirittura che il livello di drop out (gli utenti che abbandonano il percorso) fosse bassissimo rispetto ad una media di abbandoni che si situa intorno al 40%.

Personalmente non mi stupisce questa percentuale di abbandoni: i livelli di stress a cui si è sottoposti, sia a livello emotivo sia dal punto di vista fisico (vedi l’impatto a breve-medio e lungo periodo delle terapie farmacologiche), sono elevati e sarebbe non consigliabile ma indispensabile un supporto di natura psicologica.

Senza di esso, nel “tritarcarne” della pma reggono le coppie e gli individui che funzionano già bene e hanno una rete sociale sana e solida attorno ad esse.

L’invito rivolto a tutte le coppie e agli utenti che si recano nei centri Pma è di chiedere di poter avere un supporto psicologico, sia perchè è un loro diritto e anche perchè attraverso un accoglienza “umanizzata” non posso affermare che potranno avere più probabilità di successo anche se lo sospetto, ma certo avranno più possibilità di prevenire un burn-out personale e di coppia.

fonti:

Fai clic per accedere a C_17_notizie_2148_listaFile_itemName_0_file.pdf

Marta Baiocchi “In utero – la scienza e i nuovi modi di diventare madre” – Sonzogno 2018

fonte immagine: pixabay

 

 

 

Quand’è che ci fate un figlio? /2

Vi racconto una storia d’amore.

Anni fa venne a chiedermi aiuto Riccardo. Emerse abbastanza rapidamente che si trovava in una fase di blocco: aveva la sensazione che la sua vita non andasse avanti, si trovava in una specie di limbo, un luogo dove non è che andasse male ma c’erano pochi stimoli, poco desiderio, poca ambizione a osare..

Quasi fosse mollemente adagiato dentro territori di consetudini rassicuranti, sicurezze calcolate, come sottoposto ad un incantesimo che attutiva le emozioni e impediva l’azione di allungare la mano per tenderla al sogno.

Più o meno coetanei, simili come estrazione sociale e culturale, provenivamo dallo stesso quartiere. Non facemmo quindi molta fatica a stabilire un buon rapporto di fiducia e di riconoscimento reciproco.

Riccardo conviveva con Floriana, una donna di carattere e piena di energia. Il loro era un rapporto dove l’amore era vissuto con delicatezza e rispetto, colorato da pennellate di complicità gioiosa e guizzi di fantasia. L’atteggiamento serioso ed imbronciato di Riccardo era mitigato e carezzato del temperamento mediterraneo di Floriana.

Insomma una bella coppia!

Riccardo parlava a fatica della sua infertilità, era strozzato dal dolore e dall’angoscia di non poter fecondare il seme del loro amore, era arrabbiato ed era rinchiuso in cantina con il suo orgoglio ferito.

Per qualche motivo anche noto, ma poco importa, il suo corpo non riusciva a produrre il seme che serviva per fare un bimbo con la sua amata.

Floriana era paziente con lui, delicata e tuttavia anche impaziente allo stesso tempo: sentiva che il loro futuro era legato all’andare avanti comunque. Voleva un figlio per loro. Voleva poter fare la mamma e voleva Riccardo come padre accanto a lei. Bisognava farsi imprestare un semino da un cavaliere misterioso.

Riccardo non ci voleva sentire, era furioso e disperato, si sentiva in gabbia, protestava e aspettava, rintanato nel suo rifugio.

Ci volle un po’ di tempo, il giusto tempo credo ora, perchè il seme dell’amore dentro di lui si nutrisse di coraggio e di valore per potersi esprimere in libertà. Riccardo capì che per essere libero di amare doveva amare se stesso, accettarsi e perdonarsi.

Riccardo comprese che per fare il padre non era necessario essere il proprietario del copyright genetico. Riccardo comprese anche che essere padre significa “farsi” padre, essere disposto a fare il padre per il figlio, educarlo, prendersene la responsabilità affettiva.

Così un giorno si avvicinò a Floriana e le disse “mi sa che sta cambiando qualcosa”. Lei brindò con lacrime di felicità a quel gesto di amore.

Riccardo era uscito dal suo rifugio, deciso ad affrontare il suo destino con coraggio e con quella punta di incoscienza e di leggerezza che accompagna le scelte più cruciali.

Fu un movimento istintivo, quasi un trasalimento. Riccardo sentì in profondità che era giusto così.

Floriana e Riccardo, consolidati nel loro amore, partirono quindi per un paese straniero, si fecero prestare un semino dal cavaliere misterioso e infine ebbero un figlio.

Oggi per quel che so, sono una famiglia felice e realizzata.

Accettare di essere genitori non biologici dei figli che si mettono al mondo e si allevano è in fondo una gran scelta d’amore per chi vi si avvicina con rispetto, consapevolezza e inevitabile travaglio.

 

quand’è che ci fate un figlio? /1

Antonio esce furioso di casa e si incammina sotto una neve copiosa su per il borgo fino ad arrivare in città alta per poi proseguire sui colli fino al momento in cui l’incedere selvaggio non lo sfinisce e decide di rientrare a casa. Si infila silenziosamente nel letto e gira le spalle alla moglie. Marta dorme forse, non gli importa francamente.

La rabbia potente che lo ha colto quella sera lo ha liberato, lo sente. Il profondo macigno appoggiato sui polmoni è stato espulso con violenza, come un meteorite. Glielo ha detto finalmente a chiare lettere: lui non lo vuole più fare questo benedetto nuovo tentativo di mettere al mondo un figlio in provetta.. ne hanno fatti otto in due anni e prima ancora un’altro anno per sistemare questioni fisiche di cisti, ormoni e via dicendo.

Un colossale basta è eruttato dal suo corpo e ora si sente esausto ma molto più leggero.

Racconto con enfasi appropriata questi fatti accaduti ad Antonio, uno dei rari uomini che decidono di farsi sostenere durante il percorso di procreazione medicalmente assistita. Penso che è la prima volta da che lo conosco che lo vedo sereno.

Questo spezzone di storia di Marta ed Antonio, mi riporta alla memoria la loro fatica, che condividono con quella di migliaia di coppie in Italia (si stima 1 coppia su 5) che non riescono a concepire naturalmente.

“Quando entri in quel reparto per la prima volta, con tutti i tuoi sogni e le tue speranze, non immagini che diventerà un tritacarne” sibila Antonio.

La medicalizzazione di un atto così intimo e privato è una vera e propria violenza psicologica e fisica.

D’altronde se si vuole il benedetto rampollo, da qui bisogna passare.

Ciò che non è noto ai più è che il livello di frustrazione a cui si viene sottoposti è molto elevato, difficile da tollerare anche per le coppie più solide. È abbastanza frequente infatti che le coppie, anche dopo solo un tentativo, abbandonino il progetto. In un’epoca  nella quale la suggestione del controllo sugli accadimenti della vita è diffusa, un evento come questo, così incerto, manda ai matti.

Certo quando ti dicono che le percentuali di successo sono tra il 20 e il 30% per tentativo, sembra fattibile. Ma quando balli sull’altalena dell’illusione che diventa facilmente delusione, tutto si fa tremendamente complicato.

Si corre il forte rischio di mettere in discussione le certezze più profonde, l’autostima si indebolisce, il clima di coppia si incrina e la complicità diventa una chimera. Anche la sessualità patisce molto, costretta a sottostare ai tempi del calendario e della necessità.

Ho sostenuto Antonio per un lungo periodo. Per lui è stato difficile accettare questa ferita al suo orgoglio e alla sua virilità. Per anni ha avuto problemi ad accendere il desiderio sessuale.

Attenzione, parliamo di una persona strutturata solidamente, con buone risorse e con una capacità di entrare in contatto con le proprie emozioni ben sviluppata. Spesso penso invece a persone con meno risorse e mi chiedo come facciano ad attraversare questi territori rimanendo indenni.

Altra conseguenza frequente è la vergogna, che porta molti a non condividere con amici e parenti la fatica dell’esperienza e che può sfociare in un pericoloso isolamento, parente prossimo di un vissuto depressivo.

Ricordo che Antonio e Marta, con sofferenza, decisero di interrompere i tentativi e lo fecero perché avevano capito che se fossero andati avanti su quella china il loro rapporto rischiava di implodere. Fu una scelta di amore, una celebrazione della vita attraverso la rinuncia ad un sogno. Sembra paradossale ma è ciò che ha salvato la coppia, in quel frangente. Marta fu così intelligente che, nonostante la gran voglia di diventare madre, capì che se voleva salvare il suo matrimonio doveva ritrovare l’armonia e la complicità di coppia e quindi, pur patendo, assecondò Antonio.

Come andò poi a finire non è importante: l’unica cosa che so è che sono ancora insieme.

 

fonte fotografia Agenzia DIRE http://www.dire.it

 

La manutenzione dello psicoterapeuta

Gli amici ammiccanno quando arriva l’estate perchè sanno che sospendo il lavoro per almeno un mese. Dicono che ho buon tempo e.. hanno ragione.. cerco di “staccare” mente e corpo dal contingente.

Se non lo facessi, probabilmente dovrei cambiare mestiere.

Quando si parla di professioni dedicate alla cura delle persone, ho l’impressione che si sottovaluti il tema del burn-out, in sintesi l’esaurimento nervoso dell’operatore.

Lavorare a stretto contatto per buona parte del proprio tempo con persone sofferenti espone al rischio di esserne, alla lunga, condizionati emotivamente, arrivando a sviluppare, se non se ne prende coscienza e si interviene, una condizione di stress emotivo.

Molti medici, per esempio, sviluppano una tendenza a non farsi toccare dall’emotività dei pazienti per stare solo sul dato clinico per cui sono stati consultati. Io mi occupo del tumore: questo mi sta chiedendo la persona che ho di fronte e questo faccio.

E’ una strategia che ha un senso anche se questo può significare, come a volte si sente raccontare, “ma quanto è freddo questo dottore!”.

Spezzo una lancia a favore di questo dottore: lo fa perchè deve essere lucido, perchè ne vede decine tutti i giorni e non vuole ammalarsi di tristezza, ansia, senso di impotenza e via dicendo. Francamente, se dovessi andare sotto i ferri, preferirei uno così a un chirurgo emotivamente in stress. Che tagli bene e preciso, se deve tagliare..

Ma torniamo al nostro psicoterapeuta.

Il suo lavoro prevede che operi maneggiando continuamente emozioni e sentimenti, raramente espressi da chi ha di fronte in modo naturale e lineare; più facilmente in modo emotivamente disordinato e senza una connessione apparente tra causa e effetto. Il suo lavoro consiste in buona parte nell’aiutare a disingarbugliare la matassa, accettando temporaneamente di sostare nella confusione e mantenendo, allo stesso tempo, una posizione di neutralità.

E’ lì con una persona sofferente, non è che può pensare ai fatti suoi, alzarsi e andare a fare una passeggiata.. Se il paziente gli sta inchiodando lo stomaco con il dramma che lo aspetta fuori e gli cede un pò di angoscia, lui è lì a condividere questa battaglia e deve mantenersi vicino e lontano allo stesso tempo, farsi toccare per sentire e tirarsi fuori per associare e pensare, con il ritmo del mare che bagna la spiaggia.

Non dimentichiamo che uno dei fattori terapeutici principali è costituito dall’effetto prolungato dell’essere ascoltati senza essere giudicati. Molte persone si stupiscono positivamente quando realizzano che quello che interessa è condividere, non appiccicare etichette o dare indicazioni.

Tutto questo lavoro ha un costo emotivo: ci si stanca, ci si scarica, la mente si satura, il cuore palpita, il corpo si irrigidisce.

La creatività, disposizione essenziale in questo lavoro, inizia a latitare e si sente l’esigenza di liberare spazio.

Inoltre il lavoro di psicoterapeuta, per la sua peculiarità, espone alla solitudine in maniera massiccia: anche questo è un aspetto che ha le sue conseguenze.

Cosa fare per mantenersi efficienti e dotati di spazio emotivo sufficiente per poter svolgere il proprio lavoro con la continuità necessaria senza alla lunga diventare indifferenti o impermeabili?

Conoscevo un collega che sosteneva che il numero di pazienti per settimana dovesse essere al massimo di 20, se si voleva avere spazio mentale ed emotivo adeguato a far funzionare la terapia. Ecco questa, per esempio, è una misura, un paletto, anche se mi rendo conto che possa essere soggettivo.

In via più generale, visto che siamo essere umani che si prendono cura di altri esseri umani, abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi con la stessa attenzione e responsabilità con cui ci prendiamo cura dei nostri pazienti.

Non solo continuare a formarsi tecnicamente, ma anche nutrire la mente con esperienze affettive e sociali sane ed intervenire quando ci si rende conto di essere scarichi.

A me personalmente, dà molto aiuto l’appartenenza e la frequentazione di un gruppo di colleghi (che si è dato il nome di “laboratorio ti ascolto”), con cui mi incontro mensilmente da 9 anni. E’ un luogo sicuro, un porto di approdo, un’officina di manutenzione e di rifornimento di energia. Si parla di casi, si parla di noi, ci si incoraggia, ci si sfoga, con la sicurezza che gli altri ti aiuteranno, se ne senti il bisogno.

Quando capita che nella vita accada qualcosa che disturba questo equilibrio sottile e labile, si può certamente far conto sulla resilienza, ma fino ad un certo punto: e’ essenziale operare un’adeguato monitoraggio e, se se ne sente il bisogno, procedere a sane opere di manutenzione.

la potenza dell’immaginazione in terapia

Senza sogni non si vive una bella vita.

Senza la forza dell’immaginazione, il dirompente carburante che rende vivi, si rischia di osservare la propria vita scorrere.

Spesso, nel lavoro di psicoterapia, si lavora su questo.

Il paziente non lo sa, ma, fin dall’inizio, si lavora per allargare il campo della curiosità ed è per questo che i primi colloqui sono uno spartiacque.

Il lavoro iniziale ha a che fare, oltre che con il valutare il disagio, con un indagine volta a cogliere le risorse, anche quelle ben sepolte, per saggiarne la consistenza e la forza, per arruolarle alla battaglia.

E’ un lavoro certosino, in cui si affina l’arte della ricerca, della pazienza e dell’ascolto.

Quando si percepisce il battito della vita, un emozione coglie il terapeuta, che spera di aver trovato un alleato affidabile.

Raramente, nella pratica professionale, mi è capitato di incontrare persone in cui non percepissi l’esistenza di queste risorse e il mio sogno è sempre stato quello di nutrire questi germogli perchè, nel corso del tempo, prendessero vigore fino a spaccare la crosta e arrivare alla luce.

Poi la natura fa da sè.

Ci si accorge infatti che, da quel momento, il lavoro di terapia diventa più lieve e armonico, con un ritmo naturale appunto. La persona ha rimesso in moto le sue risorse originarie, quelle con cui è nata in definitiva, e si tratta di favorire il processo di guarigione.

Questo non significa che non si incontrino più barriere, conflitti e passaggi a vuoto, ma il tutto appare più affrontabile da entrambi i membri della coppia terapeutica. C’è, per così dire, una percezione condivisa di fattibilità, una tenuta del legame terapeutico, il quale si è via via fortemente impregnato di fiducia e di affettività.

La potenza dell’immaginazione si è incarnata in un progetto.

Quante volte mi è capitato di avvertire che il lavoro “grosso” era stato fatto e che la persona lì di fronte a me stava cambiando, mutando anche l’aspetto fisico e il piglio nel dirigere la propria vita.

E’ stupefacente e commovente: anche per queste soddisfazioni si fa questo lavoro.

Altre volte questo passaggio non avviene e ciò significa che il lavoro non parte per niente o parte ma si inceppa continuamente e, con buona probabilità, non durerà molto.

Capita che non ci sia stato un buon incontro e anche che non si sia riusciti a cogliere, nel momento opportuno, gli spunti per poter indirizzare la terapia nella direzione voluta.

Dispiace, tuttavia anche questa è la naturalità dei rapporti umani e non si può piacere a tutti. Anzi, secondo la mia esperienza, se si cede alla compiacenza, rinunciando quindi temporaneamente all’autenticità, si corre il forte rischio di una cocente delusione oltre che, più importante ancora, di non fare un buon servizio al cliente, rinforzandone magari anche il pregiudizio sull’inutilità del mettersi in gioco.

Credo che quest’ultimo punto sia stato uno dei più grandi apprendimenti che ho avuto dalla pratica professionale. Ricordo infatti almeno un paio di situazioni in cui mi ero incaponito a voler trovare un bandolo della matassa che regolarmente mi sfuggiva, continuando a rimandare la presa di coscienza sul fatto che la terapia non funzionava. La decisione di interrompere la terapia fu presa invece, ad un certo punto, non senza sofferenza e con saggezza, dal paziente.

In questi casi dovetti ammettere a me stesso di aver peccato di presunzione e mi misi a lavorare per intercettare ciò che mi aveva impedito di cogliere fino in fondo quei segnali e di passare la mano.

Forse si può dire che ciò che non riusciva ad attivarsi nell’interazione con queste persone avesse a che fare con lo stesso materiale che compone l’immaginazione.

Ad una fase proficua ed accudente era seguita una sorta di dimensione piatta, ricorrente, arida tra di noi. Non c’era scintilla, non c’era vita. Come fossimo in inverno.

Come consolazione ebbi che entrambe le persone trovarono poi un’altra strada, cioè un’altro terapeuta, come mi testimoniarono successivamente, che le aiutò a star meglio.

Col senno di poi penso che ciò che avevo potuto fare era stato il lavoro duro per ammorbidire il terreno e predisporlo al lavoro di semina.

Poi, per favorire e curare la nascita della pianta, ci voleva un altro giardiniere, un’altra stagione.