PERMACRISIS

Dicesi stato di crisi permamente, senza tregua.

Pare che sia la parola più rappresentativa di quest’altro anno horribilis, in quanto la più utilizzata in inghilterra secondo gli estensori del Collins Corpus, il data base che accorpa tutte le parole in uso (social media compresi) nel Regno Unito.

Dopo la pandemia, ci si aspettava perlomeno di rifiatare, ed invece ecco qua una bella guerra di invasione alle porte di casa nostra, che non ci fa dormire notti tranquille e ci rimette scomodi e insicuri.

No, non ci possiamo permettere di stare tranquilli, preoccupati dobbiamo stare!

Faccio un tipo di psicoterapia per cui l’attenzione al contesto in cui ha vissuto e vive la persona che mi chiede aiuto è alta. Questo perchè l’esperienza mi ha insegnato che le persone non “impazziscono” a caso, c’è sempre un contesto disfunzionale, un trauma non elaborato, una o più cause che, anche a distanza di tempo, hanno contribuito a mettere quella persona lì in una situazione scomoda, via via più non gestibile, fino a che generalmente, si presenta per chiedere di essere liberata dall’attacco di un sintomo.

Può essere lo spaventoso attacco di panico, può essere la fredda morsa depressiva, anche il noioso ruminamento ossessivo, può essere l’incapacità di gestire le relazioni. Insomma questi sono alcuni dei motivi prevalenti per cui le persone mi chiedono aiuto. Mi chiedono: liberami da questo mostro che mi porto dentro. Come se non riconoscessero la genesi del disagio dentro di sé. Non ricordano, non attribuiscono un senso causale agli accadimenti della vita.

Per chi conosce e studia il trauma, tutto ciò è conosciuto. Ed esistono tecniche e protocolli per poter intervenire, spesso in modo efficace.

La mia ricerca iniziale comprende l’ascolto della storia della persona, quindi chiedo se non capisco, interrompo per chiarire, dialogo per avere informazioni, non ho pelose cautele. Io voglio capire, umanamente capire cosa diavolo è successo a quella persona per farla stare così. E’ come leggere il romanzo della sua vita e mi appassiona. Lentamente (ma neanche tanto..) la matassa si dipana e la storia è lì, con le sue fratture, le sue mancanze, la sua cifra assolutamente umana. La vedo io e anche la persona che è li con me inizia a vedere, essendo stata condotta a ri-leggere la propria storia e a focalizzare la sua attenzione sui passaggi faticosi e doloranti che ha vissuto.

Ciò che noto, spesso, è proprio la mancanza di consapevolezza dell’impatto di alcuni eventi, che possono essere singoli fatti e/o anche contesti ambientali, sulla costruzione del proprio senso si sè. Non c’è contatto, non c’è legame.

E allora già il primo atto terapeutico è quello di restituire una versione più credibile, umanizzata, anche normalizzata, della storia della propria vita, seppur condensata, alle persona. E già quest’operazione ai più genera un rilassamento. Iniziano a sentirsi meno “strani” e più parte del genere umano, sperimentano sensazioni di speranza e fiducia.

Poi, certamente, il passo successivo non è poca cosa perchè contiene il passarci attraverso a questi nodi, con l’idea di districare la matassa, disincagliarla, ripercorrere i ricordi per scioglierli e dimenticarli. E’ faticoso, è disorientante, è angosciante anche. La notizia positiva è che abbiamo gli strumenti per farlo e funzionano.

Una delle scoperte più affascinanti che ho fatto nel corso della mia attività infatti è che è possibile lasciare andare le esperienze dolorose del passato nelle sue componenti fisiologiche e cioè le emozioni, risposte allo stress rimaste incastrate nel corpo dai tempi dell’evento, che, diversamente, continuano ad attivarsi ogni qualvolta un evento critico della vita le innesca.

La sfida è quindi quella di interrompere questo collegamento mortifero tra esperienze traumatiche del passato e le esperienze attuali. La sfida è quella di non accettare di vivere in uno stato di crisi permanente, ribellarsi per far vincere la vita e abituarsi a surfare sull’onda incerta della vita.