Si.. viaggiare, dolcemente viaggiare

Quando iniziai la mia prima terapia, come paziente, avevo 31 anni. Ero appena rientrato dal mio primo viaggio “importante” in Cina e mi portavo addosso tutta l’energia e la tensione emotiva che un’esperienza del genere, dal sapore iniziatico, può donare.

Allora non si viaggiava come si fa oggi: niente cellulari, niente internet, niente treni superveloci, niente globalizzazione.. no way!

In cambio avevamo bus stracolmi e scomodissimi, i “panini”: piccoli pulmini da 6-8 persone in cui stavamo in 12 con galline, mercanzia e umanità varia, che si raccattava e si lasciava continuamente lungo la strada e questo è il motivo per cui li chiamavamo così, tratte in treno di 24-36 ore, uso del linguaggio dei gesti perchè l’inglese.. e anche un mondo da scoprire, una cultura molto diversa in cui immergersi, un’esperienza colorata e caleidoscopica che inizialmente travolge e fa spavento perchè fa sentire persi e nudi.

Viaggiai con un gruppo di avventure nel mondo, autogestito e composto sul momento: 15 persone che mai si erano incontrate prima, anche questa un’insidia. Unica consolazione  fu il partire con un’amica con un lungo curriculum di viaggi alle spalle, una guida a cui aggrapparsi.

Ricordo ancora la partenza da Malpensa con il terrore per il volo.. Sudori freddi, terrore dipinto sul volto cereo, dita aggrappate al sedile e un’incomprensione assoluta di come diavolo facesse quella bestia pesante a stare sospesa nel cielo..

Fu un’esperienza travolgente e indimenticabile, un mese di vita allo stato puro. Sperimentai per la prima volta in modo continuativo la bellezza del perdersi, l’espansione delle potenzialità della coscienza, la contaminazione benefica e fiduciosa con la diversità, la percezione di emozioni intense che imparavo ad assaporare e a far fluire..

Ma perché mai vi parlo di questo, in un blog dedicato al funzionamento della psicoterapia? In fin dei conti sono esperienze personali e non si capisce per quale motivo dovrebbe interessare il lettore.

Ne scrivo perchè il viaggiare nel mondo è un’esperienza con molte similitudini con il percorso della psicoterapia.

Sono entrambi occasioni in cui ci si mette in gioco veramente: accade di uscire dalla zona di comfort, di scontrarsi con i pregiudizi, propri e dell’altro, di aprire varchi non percepiti prima, di abituarsi alla contaminazione, di scendere e sostare nella profondità delle viscere emotive, in definitiva di conoscersi e conoscere.

Approcciandosi alla psicoterapia, si immagina e si teme il viaggio, si porta con sè il bagaglio, sempre un pò troppo pesante, si accetta di affidarsi ad una guida e di farsi accompagnare, si visitano assieme luoghi e storie del presente e del passato, si attraversano conflitti e si superano difficoltà, finchè il viaggio non finisce e ci si saluta, quasi sempre con le lacrime agli occhi.

Ricordo che, quando iniziai la terapia, era settembre e avevo un certo timore. Ciò nonostante sapevo di non avere molte alternative: avevo bisogno di star meglio e di crescere.

Entrai in un gruppo condotto da un terapeuta esperto e molto gettonato. A novembre timidamente dissi al gruppo che sarei stato assente per tre settimane nel gennaio successivo. L’esperienza del viaggio in Cina mi aveva aperto un mondo e sentivo di essere già in ritardo nella mia vita da esploratore: presi quindi al volo la proposta di un amico per un viaggio in sudamerica.

Il terapeuta fece un intervento che percepii sgradevole, attaccando la mia scelta di partire proprio nel momento in cui avevo appena iniziato il viaggio della psicoterapia.

Alcune sue parole mi sono rimaste impresse: il sudamerica è un posto da straccioni.. Mi sentii umiliato e giudicato.

Partii comunque e fu uno dei viaggi più avventurosi e formativi che abbia mai fatto. Dopo avere girato il Perù, raggiungemmo il salar de uyuni (lago salato in bolivia, pressochè disabitato, di 11000 km quadri) con una jeep, per esplorarlo. Finemmo per perderci con un pieno di gasolio e due taniche di riserva, nessun satellitare, qualche scatoletta di cibo e un pò d’acqua, una mappa militare e neanche la lonely planet (l’internet di allora), lasciata sul taxi a La paz..

Con un po’ di fortuna, qualche santa persona trovata sulla strada, la fiducia e una gioia ingiustificata che, tra un porcone e l’altro, crescevano, abbiamo trovato la via del ritorno.

Alla fine il limite è spesso solo mentale.

Al ritorno ripresi la psicoterapia, certamente più fiducioso e disponibile a perdermi. Due volte la settimana prendevo la macchina e andavo a milano.

Anche lì fu dura, ma la sfangai degnamente!

Il viaggio di un’ora sull’A4 nascondeva molte più insidie che il sudamerica!

Messico e nuvole..

A fine ottobre del 2016 venne a mancare mia madre. Ero legato a lei da un rapporto intenso e profondo e passai un periodo molto doloroso.

Ricordo che accadde di mercoledì e decisi di rinviare le sedute per un paio di giorni per poi riprendere a lavorare dopo il weekend.

Il lutto per una persona cara è una delle esperienze della vita più difficili da affrontare per chiunque. Il terapeuta sa che non si può permettere di interrompere il suo lavoro per più di tanto tempo, durante la stagione di lavoro. Molte persone si appoggiano a lui e lui ci deve essere, in un modo o nell’altro, anche grattando il suolo con le unghie per rimanere presente alla realtà di ciò che accade in seduta.

In quel momento della vita il terapeuta è esposto; soffre nel suo intimo anche se, paradossalmente da un certo punto di vista, può sentirsi molto più empatico e presente emotivamente del solito.

Tuttavia, inevitabilmente (per fortuna è umano pure lui), egli porta in seduta il suo vissuto e, sebbene, in qualche modo, cerchi di attivare le risorse di ascolto, di empatia e di neutralità che sono proprie del suo ruolo, non può fare a meno di dissimulare la sofferenza che, a tratti, può arrivare qualora, ed è la norma in seduta, si tocchino dei tasti dolenti.

Insomma non se ne esce, puoi solo rimanere.

Hai voglia a tener presente il percorso fatto fino ad allora, le approfondite terapie a cui ti sei sottoposto, le centinaia di ore di formazione e supervisione, l’amore e il sostegno delle persone attorno a te, il significato esistenziale del divenire della vita.. tu sei lì solo con una persona che soffre e che vuole essere aiutata e ci devi essere. stop!

Credo che sia una sfida tra le più difficili per chi fa questo lavoro.

Ai pazienti a cui avevo rinviato la seduta, avevo comunicato di avere avuto un lutto in famiglia, con gli altri non avevo necessità di comunicare un fatto personale, in quanto la normale scansione delle sedute non era stata variata.

Per i pazienti noi esistiamo solo in seduta, fuori da lì rimaniamo delle proiezioni fantastiche e idealizzate con cui si confrontano fino alla seduta successiva. Non sanno nulla di noi come persone, nè vogliono o si autorizzano a saperlo.

Sono rari i casi in cui si interessano a noi come persone e, quando accade, è perchè si è in fase avanzata della terapia oppure c’è una sintonia particolare. Spesso interessarsi alla persona del terapeuta è indice di aver finito il lavoro terapeutico e quindi ci si può consentire di rischiare di “umanizzare” il terapeuta, in quanto ci si sente più staccati e autonomi da lui e meno timorosi del suo “giudizio”.

Ed è tutto ragionevole nel senso che il contratto prevede che il paziente paghi per essere ascoltato ed aiutato, non certo per avere una relazione amicale.

Questa premessa mi porta ora a descrivere un passaggio nella terapia con un paziente che ci ha commosso entrambi e ha rappresentato per lui e anche per me, un momento di grande apprendimento emotivo ed esistenziale.

Qualche tempo dopo il lutto, decisi di appendere in studio un cuore alato che avevo regalato a mia madre anni prima al ritorno da un viaggio in Messico e che mi era sempre molto piaciuto. Mi faceva compagnia in studio, e mi rasserenava guardarlo di tanto in tanto.

R. (uno dei pazienti a cui avevo rinviato l’appuntamento), parecchi mesi dopo il lutto, mi disse, con grande delicatezza, che aveva riconosciuto in tutti quei mesi il dolore nei miei occhi e la fatica che ci avevo messo per esserci.. in seduta. Mi commossi, trattenendomi a fatica, lo ringraziai per avermelo detto e compresi con gioia che R. aveva aperto un varco nella sua modalità prevalentemente razionale con cui era solito affrontare le cose della vita, relazioni affettive comprese. Fu un passaggio determinante nella sua terapia e ancora oggi ricordiamo assieme di tanto in tanto quel momento, celebrandone l’importanza.

Fu importante per R. e fu importante per me, che compresi definitivamente quanto possa essere determinante terapeuticamente per entrambi gli attori della terapia una condivisione affettiva di umanità.

Messico e nuvole…

Grazie Irv!

Psichiatra e psicoterapeuta americano, saggista e narratore, Irving David Yalom ha 87 anni ed è in fiorente attività.

nell’ultimo suo libro, “Diventare se stessi”, sorta di autobiografia delicata ed appassionata, dichiara di vedere ancora tre pazienti al giorno, nel pomeriggio, dopo aver passato la mattinata a scrivere. si concede ancora quotidianamente un bel giro in bicicletta per far prendere aria ai pensieri.

ah che piacere leggerlo. mi ha restituito la voglia di leggere sul nostro mestiere. il suo è un tocco umano, caldo e appassionato; scrive della terapia o meglio dell’essere in terapia con grande naturalezza e mettendosi dentro, raccontando senza citarlo per esempio, che cosa è il “controtransfert” , consentendo a chiunque lo legga di capire che cosa avviene in quel momento dentro di lui mentre sta cercando di trovare il modo giusto per entrare in contatto con la persona che ha di fronte e di spiegare i passaggi del processo per fare arrivare quelle parole che la possano aiutare a fare un passo in avanti in termini di consapevolezza.

gran parte della letteratura nel settore è saggistica di stampo tecnico, destinata ad un pubblico settoriale, che ne può comprendere il lessico grazie al background culturale su cui per anni si è formato.

sul versante della divulgazione c’è poi una fiorente produzione di manuali di auto-aiuto, in cui più che massime, esercizi e consigli, in sintesi, non si trova.

la psiche umana è complessa e la difficoltà del nostro mestiere è anche quella di tradurre gli insegnamenti dei maestri e dell’esperienza in apprendimenti e pratiche che siano in linea con la propria personalità e il proprio carattere, per poterle usare in maniera naturale ed appropriata, il più possibile consapevole e soprattutto efficace.

rari autori si sono distinti per la capacità di divulgare con semplicità e limpidezza ciò che accade nella stanza di terapia e Yalom è certo un maestro.

mi sono trovato, leggendo i suoi libri, a riconoscere grandi affinità tra una mia spinta a migliorarmi e il suo percorso personale.

Yalom racconta che il suo vulnus originario è stato il rapporto con la madre e dichiara che, a più riprese nel corso della vita, si è rimesso in discussione mettendosi in terapia con persone che sentiva potevano dargli qualcosa.

oltre a ciò egli è membro fondatore e assiduo partecipante di due gruppi di intervisione: uno che ha il fine di dare sostegno ai terapeuti che vi fanno parte i quali, di volta in volta, a seconda degli eventi personali o professionali, si trovino in difficoltà; il secondo più tradizionale, in cui a turno si portano e discutono casi, ovviamente in forma anonima, col fine di farsi fecondare dalle intuizioni e dalle associazioni degli altri colleghi di gruppo e portare tutto ciò nuovamente in terapia.

non nasconde la sua umana condizione di essere imperfetto: applaude la ricerca, la curiosità, l’autocritica, l’apertura a nuove idee costante come l’unica condizione possibile per migliorarsi in questo lavoro.

è certamente un terapeuta fuori dagli schemi e nel corso della sua vita ha cercato, guarda caso, di non assumere incarichi istituzionali troppo gravosi che lo potessero inibire nel lasciare andare libera la sua creatività, indipendenza e capacità di pensiero.

per tutto questo e per altro che non mi è venuto in mente… grazie Irv!

 

 

il blog del dottor Ghezzi

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PERCHE’ QUESTO BLOG?

la foto sopra mi è cara. l’ho scattata a sossusvlei in namibia, un posto mitico, che per anni ho sognato di visitare. per i miei 50 anni, mi sono regalato questo viaggio.

al rientro, avevo talmente tanta energia in corpo che ho deciso di provare a realizzare alcuni sogni che avevo in mente da tempo.

ma questa è un’altra storia.. di cui parlerò in un prossimo post.

anche quest’anno, al rientro dalle vacanze, non così esotiche in questo caso, ho voglia di progetti nuovi.

ed ecco l’idea del blog.

lo spunto nasce da un post che ho letto su un social in cui sostanzialmente si rivelava, in forma di divertissement vacanziero, la presenza ancora forte e strisciante di un pregiudizio sull’entrare in terapia.

la domanda, posta a manager di alto livello, era se il fatto di venire a conoscenza che un proprio collaboratore fosse in analisi avrebbe potuto minare la fiducia in lui. ecco.. la maggioranza, a denti stretti, ha risposto di si.

ora, nella mia esperienza professionale come in quella dei colleghi con cui mi confronto, in quasi tutti i casi in cui la terapia funziona, le persone hanno un grande miglioramento del loro benessere personale, e ciò ovviamente si esprime anche nell’ambiente lavorativo.

questo può anche significare che una persona scopra di avere dei talenti non sfruttati e cerchi quindi di metterli a frutto, magari anche puntando a degli obiettivi nuovi, come avanzamenti di carriera o anche un cambiamento di azienda, alla ricerca di maggiori stimoli.

se il timore del cambiamento – nelle relazioni, negli equilibri organizzativi, nella competizione che ne deriverebbe – fosse una bella fetta della reale motivazione di quei si a denti stretti dei nostri manager, cosa ne pensereste?

Non è anche questo un pregiudizio?

certo in questo caso, se avessi azzeccato almeno in parte le motivazioni dei nostri manager, sarebbe un pregiudizio già più spiegabile dal timore del cambiamento e dalle problematiche da gestire che ne deriverebbero, più comprensibile e umano insomma.

il pregiudizio generico sulla psicoterapia, ancora abbastanza diffuso, è già più difficile da contrastare perchè parliamo di un’esperienza personale, che rimane spesso patrimonio intimo delle persone che decidono di praticarla.

è sempre stato un tema che mi ha affascinato e ingaggiato: “a me personalmente ha cambiato la vita, e in meglio accidenti.. come mai molte persone attorno a me non lo capiscono? perchè questa diffidenza diffusa?”, queste le domande su cui mi scervellavo.

di conseguenza, in tutti i contesti in cui ho lavorato, ho sempre fatto grande attenzione a questo aspetto, e ho imparato a valorizzare e trasmettere il lato umano dell’esperienza.

alla fin fine, uno dei mezzi per contrastare un pregiudizio radicato è diffondere informazione che sia pertinente, competente e comprensibile.

così è nata l’idea del blog..

fatemi gli auguri, quindi..