Se non ora quando?

Mi ritrovo davanti alla tastiera dopo tanto tempo e ciò significa che finalmente si è liberato dello spazio mentale perchè potessero nascere intuizioni, pensieri, collegamenti. Dico finalmente perchè con l’emergenza pandemica non c’è stato spazio libero per più di due anni. Lutti, angoscia, lavoro sul campo, formazione sull’emergenza.. E’ stato un pieno mai provato prima. La categoria degli psico- è stata presa d’assalto in questi due anni. Non c’è collega, giovane o maturo che sia, che non abbia visto impennare le richieste di aiuto e di presa in carico. Siamo stati in trincea e abbiamo trascinato fuori dal buco un bel po’ di persone in questo periodo di emergenza.

Ed ora, riemergendo dal pelo dell’acqua profonda in cui abbiamo annaspato in questo lungo periodo, si avverte una bella sensazione di freschezza e di vitalità ed arriva il tempo delle riflessioni e dei bilanci. Finalmente, a bocce quasi ferme…

Nella prima fase pandemica le persone che hanno chiesto aiuto, pur in crisi, erano in buona parte molto motivate a cambiare e ciò ha reso più agevole e anche più spedito il lavoro di terapia.

Quello che mi sembra di notare negli ultimi tempi è che le persone che ora stanno chiedendo aiuto siano invece ad un livello di sofferenza e stress nettamente più elevato e quindi il dispositivo terapeutico trova delle complessità per cui fatica ad entrare a regime per produrre risultati. In sintesi, è più difficile che il percorso parta, c’è un rischio alto di drop out, occorre forse anche più tempo in prospettiva perchè il tessuto profondo della persona è costellato di ferite e necessita di un lavoro delicato e paziente di medicazione e rammendo.

Ed ecco una prima riflessione: si parla tanto di adolescenti e giovani adulti in profonda crisi ed è certamente vero, ma si parla meno degli effetti della trasmissione transgenerazionale del trauma con conseguente disregolazione emotiva. Mi spiego: in tante situazioni il giovane che sta male è anche il risultato della mancata diagnosi e cura del genitore. Cioè il dolore, la disfunzionalità, il trauma del genitore passa al figlio. C’è evidenza scientifica di ciò: arriva pure a coglierne i segni a livello epigenetico.

Il problema che si prospetta in queste situazioni (frequenti) è semmai convincere il genitore o i genitori che questa è più un’opportunità che una tragedia o un’allucinazione del terapeuta.

Anche perchè spiegatemi come mai deve essere più accettabile che sia il figlio ad avere un problema, piuttosto che il sistema “famiglia”.

Un tempo si parlava di “famiglia schizofrenogena” cioè quella famiglia talmente disfunzionale che genera figli patologici ( un tempo si definiva “paziente designato” colui che manifestava in modo florido il disturbo).

E forse parte del problema sta qua: il pregiudizio che il giovane contemporaneo non ha, mentre il genitore se lo porta dietro come dato culturale appreso.

Mi spiego: le generazioni nate nel 900 avevano gran timore di poter avere un problema mentale (ora si dice psicologico) e quindi alla peggio prendevano il farmaco, raramente cercavano uno psicoterapeuta (nella seconda metà del secolo diventò più diffuso anche se spesso interpretato, come si faceva allora, come un vezzo borghese). Le generazioni nate nel nuovo millenio sono molto più concrete e meno influenzate da ideologie o dogmi e quindi “se sto male accetto di farmi curare”.

Infine, uno degli effetti della pandemia, e questa è la seconda riflessione che propongo in questo post di “ri-nascita”, è che ha sdoganato la psicoterapia. Cioè ora sta diventando ok andare dallo psicoterapeuta e molti si accorgono che è anche utile e fa star meglio.

P.S.

Questo post ha trovato il suo link di avvio dopo la visione del film America latina, con un grande Elio Germano, che tratta in modo crudo ma, ahimè realistico, questo tema.

Pubblicato da

Dottor Ghezzi Marco

Psicologo psicoterapeuta Studio a Bergamo. Maggiori informazioni curricolari sul sito www.marcoghezzi.org

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